Iersera ho visto DONT LOOK BACK di D. A. Pennebaker, documentario che segue Bob Dylan nel suo tour londinese del 1965 poco prima della svolta rock. A parte il fatto che secondo me andrebbe inserito di diritto nella discografia di Dylan, come pura forza performativa che sprigiona dal Dylan in bianco e nero di quegli anni ’60: ogni gesto, ogni sbadiglio, in tutto ciò che fa Dylan è cool, angry, punk come non sarà mai più; a parte tutto questo fa una certa impressione vedere oggi come tantissimi fan si scusino con lui (si scusano davvero!) di non riuscire a volte a concentrarsi sulle sue parole perché distratti dalla musica! Dylan si schernisce: sono soltanto uno che suona la chitarra, eludendo così sia il suo ruolo di poeta che quello di guida sociale e politica. Qualcosa della sua insoddisfazione, però, trapela dalle sue esibizioni. Ti importa qualcosa di quello che canti? gli chiede il giornalista del Time, al che Dylan risponde incazzato: Non posso credere che tu mi stia facendo una domanda del genere. Eppure, quando alla fine i giornali gli danno dell’anarchico, ci resta quasi male: finalmente sono riusciti a trovare una parola per definirmi, dice con sarcasmo. Date una sigaretta all’anarchico, aggiunge, con una battuta entrata nell’immaginario popolare inglese, come se fosse l’ultima sigaretta di un condannato a morte. Perché di fatto, nell’universo dylaniano, tutto ciò che viene definito è già come se fosse un poco morto. Speriamo che la parola «poeta», con cui lotta da una vita, ora che ha vinto il Nobel non lo uccida del tutto.
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