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venerdì 13 ottobre 2023

ogni libro che non compro muore?

Ieri e oggi, per una settimana di eventi intorno al centenario calviniano organizzata dalla libreria L'Approdo ho fatto degli incontri sul lavoro editoriale a partire dai rapporti epistolari fra Calvino e Sciascia. Ieri l’incontro era con degli adolescenti che per vari motivi hanno abbandonato gli studi (dispersione scolastica) mentre oggi con i loro “fratellini” più piccoli di terza media. Anche se poi tutti gli insegnanti che conosco mi dicono con convinzione che il loro è il lavoro più bello del mondo, è anche vero – provare per credere – che è difficilissimo gestire delle persone così giovani, esuberanti, ma con un livello di attenzione che di classe in classe si fa sempre più basso col rischio che a furia di abbassarsi finisca per trasformarsi in disinteresse, non solo verso i fatti letterari, che sono pur sempre relativi, ma proprio verso la vita in tutti i suoi aspetti, dal lavoro alle relazioni affettive, al pensiero come forma di comprensione del mondo e di se stessi. Io, in tal senso, senza i libri sarei stato davvero perduto, proprio come lo sarebbero stati Calvino e Sciascia, e spero che almeno questo messaggio sia passato, indipendentemente dal fatto che quei ragazzi poi diventino dei lettori o meno. Non serve essere dei palestrati per riconoscere che l’attività fisica fa bene al corpo, anche se molti vanno in palestra soltanto per riempire uno spazio vuoto. Allo stesso modo non serve essere dei lettori per riconoscere che i libri non sono soltanto un passatempo, ma fanno bene alla salute, alcuni libri ci rendono addirittura persone migliori. E funziona anche al contrario, a volte siamo noi che scegliendolo diamo una possibilità di vita a un libro. Oggi, dopo che ho spiegato come funziona la catena editoriale (dal manoscritto a quando il libro finisce in libreria), dopo mezz’ora i ragazzi erano irrequieti perché stanchi, e un attimo prima di perderli del tutto ho detto loro che i libri che non vengono venduti in genere vanno al macero. Lì è stato bellissimo, quasi commovente, perché si è fermato tutto, la classe si è fatta silenziosa, quasi triste mentre mi guardava. – Vuol dire, mi ha chiesto un ragazzino, che ogni libro che non compro muore? – Nemmeno volendo, nemmeno se ci mettessimo tutti insieme, potremmo salvarli tutti, gli ho risposto, perché ci sono troppi libri. Ma pensa che quando ne compri uno, quello è un libro che stai salvando.

giovedì 12 ottobre 2023

i soldi coi libri comunicano

Scorrendo il trentennale carteggio intercorso fra Italo Calvino e Leonardo Sciascia – fra i moltissimi spunti di riflessione sui più vari argomenti letterari di cui i due amici discutevano con acume raro – non si può fare a meno di sorridere sulla più succosa differenza quando si arriva al cuore delle questioni editoriali. Nelle sue lettere Calvino (in qualità di consulente Einaudi) torna sempre e soltanto a parlare di Letteratura, di libri, di struttura, di sistemi, di stile, per lui la Letteratura così come la scrittura sono una fede, l’unica fede che lo animava: sono pagine dense di attenzione e rispetto, di amore verso l’opera degli altri; le sue osservazioni sui "gialli" di Sciascia sono ancora fondamentali per qualsiasi critica seria all'opera dello scrittore siciliano, tanto che Calvino resterà per tutta la sua vita l’editor di fiducia di Sciascia, il suo primo lettore. Di contro Sciascia (in quanto autore di punta della casa editrice) rimarca di continuo, con stilettate elegantissime, la questione economica che da sempre angustia ogni scrittore. Se Calvino, punzecchiato, gli scrive: “Dici che devi avere dei soldi. Ma che c’entrano i soldi coi libri? Soldi e libri, purtroppo, appartengono a due universi diversi”, Sciascia gli risponde “i soldi coi libri in un certo modo comunicano”. Mesi dopo affonda con una sciabolata: “Con tutta franchezza (e spero me lo permetterai in nome dell’amicizia), ti confesso che il mio editore ideale è Vito Laterza: non solo perché paga i diritti con puntualità e scrupolo (cosa di cui non mi importa poi molto), ma perché diffonde il libro come meglio non si potrebbe.” E in una lettera del 1959 in cui accusa Einaudi di essere poco “sincera” sulle sue intenzioni in merito alla ristampa di un libro: “La mia ostinazione a chiedere la ristampa del libro nasce anche dal fatto che io scrivo nella cronaca e con intenzioni libellistiche. Ristampare il «gettone» tra un anno o due sarebbe inutile. Della nostra generazione, solo tu e Pasolini (e Pasolini non certo per i romanzi) resterete a galla: gli altri viviamo alla giornata. Mi pare giusto, però, consentire al mio «gettone» di vivere una giornata – e non mezza giornata”.

(Gli estratti sono presi da L'illuminismo tuo e mio, carteggio fra Calvino e Sciascia edito da Mondadori).

mercoledì 20 aprile 2022

touché

Ieri credo, non ricordo su che testata, Nicola Lagioia diceva una cosa molto intelligente in un articolo che pure parlava d’altro, l’orribile guerra e come la viviamo/vediamo. Diceva, come chiusa del pezzo, che oggi in Italia abbiamo una lunga schiera di candidati a nuovi Pasolini ma nemmeno un Calvino. Touché. Ho questa sensazione che Calvino sia un po’ passato di moda, anche se un paio di libri suoi (Palomar su tutti) sono sempre bellissimi, ma nemmeno Pasolini è così letto come sembra. Più che altro, con lui, è forte la tentazione del j’accuse, con quella punta di masochismo privo di vera ironia che agli italiani – in fondo tutti cattoliconi fin nel midollo – piace così tanto. Ecco che stamattina, come cura per tutto questo, mi è capitato fra le mani il più elegante e perfido Flaiano, spesso rassegnato ma per questo mai violento, anche nei suoi momenti di massima infelicità. Flaiano puoi leggerlo in bagno senza perdere il filo del discorso e permette sempre di cavarsela con una battuta che per brevità puoi rivenderti su twitter. Meno Pasolini e più Flaiano, dunque? Ne verremo certamente migliorati. Questa, ad esempio, l’ho letta poco fa: “Ma è in questa solitudine prossima al delitto che nascono i pittori e i poeti della domenica” (da Diario degli errori).

domenica 24 gennaio 2021

due impressioni su centuria

Stamattina mi sono messo a leggere Centuria di Manganelli. Lo avevo lì da anni ma è la prima volta che lo prendo in mano. Due impressioni personali. La prima è che ha una scrittura talmente limpida e lineare questo libro (non ho letto altro di suo) che si fa un sacco di fatica a leggerlo. Perché mi accorgo che a volte lo stile è un alibi, tu lettore ti perdi nella forma, nella costruzione più o meno elaborata delle parole e non dai peso al contenuto o ci scorri sopra; lì dove lo stile è basso, preciso, non puoi che attaccarti ai contenuti, e visto che quelle di Centuria sono storie assai condensate dove si richiede al lettore (proprio come in poesia) di costruire castelli sul vuoto, riempire le assenze, lo sforzo di concentrazione/immaginazione del lettore è doppio. Seconda considerazione, non sono abbastanza addentrato nello scambio Manganelli-Queneau-Calvino che mi pare sia assai prolifico, ma a pelle mi sembra che Palomar che è l'ultimo e più bel libro di Calvino ha più debiti con Centuria che con tutti i libri del francese che hanno influenzato la sua ultima produzione. Anzi, a tratti mi pare quasi che Palomar nasca proprio qui. Semplicemente Calvino ha preso il libro di Manganelli, ci ha messo un po' di cuore, e l'ha fatto suo.

domenica 12 gennaio 2020

morte per mano dell’autore

Con Un giorno perfetto per i pescibanana J.D. Salinger crea il personaggio di Seymour Glass, uno degli eroi del ‘900 letterario ma, ancor più, un eroe in assenza, protagonista di una saga famigliare di cui è il fulcro proprio in virtù del vuoto che vi lascia, elemento perturbante, non rimosso, lutto non elaborato, ombra di volta in volta consolatoria o ingombrante proprio in virtù della sua aura superumana. Il reduce Seymour Glass che, per certi versi, è un po’ l’alter ego dello stesso Salinger, muore suicida in questo che apre i Nove racconti, sparandosi un colpo alla testa dopo aver passato una tranquilla giornata al mare. Nella storia vi sono delle allusioni, ma di fatto non vengono spiegate le vere ragioni del gesto e il boato di quello sparo viene amplificato proprio dall’apparente serenità che lo precede. Perché scrivo di questo celebre racconto che non ha affatto bisogno delle mie note? Perché Un giorno perfetto per i pescibanana viene scritto nel 1947, pubblicato nel 1948 e poi raccolto nei Nove racconti nel 1953. All’epoca Salinger è già uno scrittore di fama mondiale, pertanto del volume viene subito approntata una traduzione italiana, pubblicata da Einaudi, a cura di Carlo Fruttero. Ecco che nove anni dopo, nel 1962, esce per Vallecchi la raccolta di racconti In società, opera di uno scrittore assai meno celebre ma altrettanto talentuoso, tormentato e isolato, Tommaso Landolfi. Al suo interno vi è pubblicato un racconto di chiara matrice dostoevskijana, La mattinata dello scrittore, in cui si parla, con evidenti agganci autobiografici, delle ultime vacue ore di vita di uno scrittore di provincia, che prima si arrovella per un verso mancato, poi per una relazione mancata, ma la cui punta massima di disperazione si registra quando si accorge di non trovare più il suo pacchetto di sigarette. Alla fine però succede qualcosa che modifica il quadro. Quasi per caso, per una decisione estemporanea ma allo stesso tempo “semplice e definitiva”, lo scrittore raccoglie la pistola che tiene nel cassetto e si spara. L’atmosfera nebbiosa e vagamente annoiata è la stessa del racconto dell’americano. E anche qui, pur nell’accennarsi dei motivi, manca del tutto un movente al suicidio del proprio alter ego. Per la prima volta Landolfi affronta, dietro lo schermo narrativo, la propria “volontà di morte”, e la critica vi legge un risvolto nichilista consono allo scrittore. Eppure, mi sono sempre chiesto se a far scattare quella particolare molla in Landolfi – magari complice Calvino consulente Einaudi – fossero stati i Pescibanana di Salinger. Se Landolfi, leggendolo, vi si fosse riconosciuto, avrebbe ritrovato in quell’americano “spostato” per i disastri della guerra, l’identico vuoto di sé che anche lui si sentiva dentro, fino al punto da replicarne le pulsioni che già lo animavano, per cercare di liberarsi, almeno in letteratura, del suo male di vivere. Inscenando, quindi, il delitto perfetto: la propria morte per mano dell’autore.

venerdì 18 gennaio 2019

il giappone in valmarecchia


Più mi addentro nei suoi scritti e più mi accorgo che c'è un grosso equivoco intorno alla figura di Tonino Guerra, che lo vede schierato per la nostra critica nel ruolo di poeta contadino, poeta naive, dialettale, un istintivo di grande estro ma di non sempre mirato controllo formale. Invece andrebbe meglio studiato, anche stilisticamente, alla luce delle sue letture, delle sue frequentazioni internazionali. Anche io, all'inizio, sono stato tratto in inganno, lo pensavo un Neorealista, poi un felliniano, e per certi versi influenzato dal suo matrimonio russo. E non mi accorgevo di come Guerra abbia sempre preferito Antonioni a Fellini, che il suo rapporto con l'Est andava, attraverso la mediazione di Pound, ben al di là della Russia di Tarkowskij, arrivava in Medioriente, in Cina, infine in Giappone, al cuore stesso della loro cultura. E non capivo come sia impensabile capire la leggerezza quasi eterea dell'ultimo Guerra, i suoi tentativi di disgregazione della forma romanzo, il suo innalzare il nudo aneddoto a narrazione pura, indipendente da sovrastrutture morali, senza tener conto dello Tsurezuregusa del monaco Kenko, delle Note del guanciale di Sei Shonagon, dei diari di viaggio di Basho, opere che non solo ha letto, ma che a tratti ricalca, lasciandoci degli indizi evidenti del suo percorso letterario trasversale. Percorso che lo ha completamente isolato, a un certo punto, relegandolo nell'alveo dello stravagante cui tutto è concesso in nome della poesia (ruolo che ha evidentemente interpretato al suo meglio). Era un percorso rigoroso, invece, ma molto distante dalla nostra cultura e per questo non sempre decifrabile, o digeribile. In tal senso Guerra è uno dei pochi nostri autori (non solo cinematografici) di respiro internazionale, capace di portare con una facilità ingannevole il Giappone in Valmarecchia e la Valmarecchia in Giappone, e mi meraviglia che ad oggi nessuno studio serio (se non per poche intense intuizioni, come quella di Calvino nelle note al Polverone) abbia mai indagato gli evidenti rapporti tematici e formali (a cominciare dai disegni) da lui intessuti, nella sua opera, con l'Oriente.

lunedì 2 luglio 2018

dalla parte di chi non scrive

Pur non avendo mai approfondito la vita di Italo Calvino, dalla notizia della morte di Chichita, sua vedova ed erede dei suoi scritti, continuo a ripensare alla storia d’amore con Elsa De Giorgi, l’altra, ma vista dalla parte del marito di lei, Sandrino Contini Bonacossi, che da quel poco che ho letto fu un uomo fuori dal comune, persino nell’apparente sconfitta sentimentale: scomparve nel nulla a metà anni ‘50, chiedendole da lontano una separazione mai concessagli, per poi finire impiccato in un albergo a Washington vent’anni dopo. Nel momento stesso della sua fuga, lei, indecisa a lungo fra i due uomini, scelse la storia letterariamente più allettante, quella del lento e doloroso inseguimento di un’ombra. Più lui le sfuggiva, più lei rifiutava di cedergli terreno. Una fuga in tutto e per tutto simile – ma capovolta – a quella di Angelica da Orlando, che come annota Calvino nella sua versione raccontata dell’Orlando Furioso, ha una tale potenza centrifuga da mettere in moto tutta una serie di avvenimenti e personaggi intorno a loro. 
Chichita, all’opposto, scelse di tramutare quella storia, che peraltro non la coinvolgeva direttamente, essendo arrivata dopo nella vita di Calvino, in un segreto frutto della gelosia, nascondendo il carteggio di tale amore in un fondo ben custodito a Pavia e vincolato al silenzio, ma in un tale chiacchiericcio sui meriti dei suoi contenuti da farlo rimpiangere a tutti i lettori che da sempre sognano di riuscire a far coincidere arte e vita – bellezza e verità – su di un unico piano. Più Chichita negava di dare quell’epistolario in pasto ai lettori, e più si accendeva in loro il desiderio di averlo, rinfocolando quell’antico amore ormai sopito. 
Ma Chichita e Sandrino sono anche, appunto, la riprova di quale sia il prezzo da pagare quando si confondono i due estremi di arte e vita, senza riuscire a toccarsi. Entrambi adombrati, persino nel proprio dolore, o nel disappunto, dalla storia romanticamente più forte dei loro consorti scrittori, pur essendo a loro volta persone straordinarie e personaggi assolutamente letterari. Entrambi eternamente secondi ed entrambi infine divenuti primi, ma non per aver vinto il duello coi rispettivi compagni o coi rivali, quanto per motivi puramente biologici: l’uno per essersi sottratto al confronto, l’altra per essergli sopravvissuta.

domenica 18 dicembre 2016

spoiler di guerra

Ho letto un libro bello, di forte sapore onirico, I cento uccelli di Tonino Guerra. È diviso in tre parti ben distinte, brevissime, dalle atmosfere rarefatte, ma assai raffinato nella struttura. Nella prima parte un uomo si aggira alla ricerca della moglie scomparsa per una Roma lussureggiante e africana (molto simile per certi aspetti a quella della Grande Bellezza di Sorrentino), prima in compagnia di una donna, poi di altri strani personaggi, fino a scordarsi egli stesso della moglie (che vi ricorda? A me L’avventura di Antonioni, di cui Guerra fu uno degli sceneggiatori). Alla fine della prima parte l’uomo ritrova la moglie che però, anche se identica, non gli pare più la stessa donna che aveva sposato, fa l’amore con lei ma non la riconosce, addirittura sospetta abbia una seconda vita. La donna scompare di nuovo, senza troppo rumore. Nella seconda parte del romanzo l’uomo decide di allontanarsi da Roma per recarsi nel suo luogo di origine, un paesino del centro Italia devastato dal terremoto, in cui comincia a convivere con un vecchio pazzo che gli ricorda suo padre, un mendicante sopravvissuto al crollo che si aggira fra le macerie come un primitivo, e che assiste nelle ultime ore fino a ritrovare nella sua morte una sorta di epifania che trasformerà anche lui in una nuova persona. Nell’ultima parte del romanzo c’è uno slittamento del punto di vista. Parla un investigatore privato (che a me ha fatto pensare tantissimo al protagonista di Pulp di Bukowski con qualcosa del Gorilla di Dazieri) che rivela come l’uomo lo paghi fin dall’inizio per farsi seguire, in quanto ha paura di scomparire perdendosi nei meandri della propria mente. L’investigatore lo tiene d’occhio, registrando persino gli incontri casuali o finto casuali con questa donna che non si capisce se sia sua moglie o meno, fino ad assistere alla morte apparente dell’uomo. Il tutto in un libriccino lungo circa 80 pagine che ci rammentano di un Tonino Guerra romano, di quando ancora scriveva per il cinema e il periodo rurale di “l’ottimismo è il profumo della vita” era cosa lontanissima. Prefazione di Italo Calvino. Ve l’ho raccontato tutto, facendone lo spoiler, perché dubito che qualcuno a parte me se lo compri, e almeno così sapete che questo libro è esistito.

mercoledì 28 marzo 2012

forme brevi

“In questa predilezione per le forme brevi non faccio che seguire la vera vocazione della letteratura italiana, povera di romanzieri ma sempre ricca di poeti, i quali anche quando scrivono in prosa danno il meglio di sé in testi in cui il massimo di invenzione e di pensiero è contenuto in poche pagine, come quel libro senza uguali in altre letterature che è le Operette morali di Leopardi.”

Calvino, Lezioni Americane, pag. 50

domenica 19 settembre 2010

un pensiero a calvino

19 settembre, leggo sul blog di Sergio Pasquandrea una commossa apologia di Calvino scrittore, di cui proprio oggi cade l’anniversario di morte. È una cosa che fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile, eppure anche su Calvino si abbatte con sempre più frequenza la scure del revisionismo critico. Ci si chiede: va bene che per la Scuola sia un mito, il must della scrittura italiana del ‘900, ma tutta quest’aura di santità artistica sarà poi meritata? È stato o no Calvino il genio letterario che oggi tutti ci propinano al liceo? La risposta dei più ormai è la stessa: Calvino è stato un buono scrittore del ‘900, molto abile (e furbo) ad autopromuoversi, ma di certo non il più grande e, forse, la Scuola dovrebbe fare un po’ di revisionismo anche lei e cominciare a dare spazio ad autori ben più importanti, anche sul fronte internazionale, come Svevo, Pavese, Pasolini, Gadda o Sciascia.
Ora, fermo restando che sapersi autopromuovere non è mai stato un crimine ma anzi, in ambito culturale, da sempre un merito, almeno per chi volesse vivere del proprio lavoro d’artista, e che comunque non è che Calvino sul fronte internazionale sia un signor Nessuno (basti vedere l’enorme e dichiarata influenza che ha avuto su un autore contemporaneo come Jonathan Coe), c’è da dire che: uno, Calvino fu figlio del suo tempo, e sconta il senso di distanza che l’attuale indirizzo artistico nutre proprio verso quello sperimentalismo metaletterario di cui proprio lui fu uno degli esponenti più autorevoli, al fianco di Queneau. Una cosa simile tra l’altro accade in poesia nei confronti dell’Ermetismo, con un forte senso di rifiuto anche verso poeti di fondamentale importanza come, ad esempio, Montale. E: due, come dice bene Sergio sul suo blog, la canonizzazione scolastica ammazza tutti, senza distinzioni di sorta.
Poi certo, se è vero che a lui piacque diventare un oggetto di culto della Scuola (e a chi non piacerebbe? anche a Pasolini sarebbe forse piaciuto), è anche vero che, se la Scuola lo ha santificato, non è nemmeno tutta colpa di Calvino. Come per i fatti d’amore, si deve essere in due in questo tipo di scelte. Fra l’altro, questa storia mi ricorda un po’ tutte le polemiche che da anni si sentono intorno al Manzoni dei Promessi Sposi. Sarà anche il più acclamato capolavoro dell’800 italiano ma io, e non solo, gli preferisco Verga dei Malavoglia. Però sono più contento così. In fondo, alla fin fine ci si dovrebbe anche chiedere chi ci perde di più fra Scuola e Calvino in questo rapporto di dipendenza reciproco. E sinceramente io credo che il vero perdente sia Calvino. Mentre autori come Pavese o Pasolini, proprio come Verga, sono presi con le pinze dagli insegnanti e poi, negli anni successivi al liceo, sono quelli che più a lungo restano nel cuore degli studenti, che li scoprono e se li vivono per fatti loro, senza “istruzioni per l’uso”, per Manzoni non c’è ritorno. Finito il liceo Manzoni è morto, è solo un brutto ricordo dell’interrogazione di Italiano.
Insomma, ai suoi detrattori dico, perché lamentarsi? Si studia Calvino a scuola e si legge (o si spera che si legga) Pasolini a casa. Meglio Calvino che Moccia aggiungo, e credo che nessuno, per quanto critico nei suoi confronti, possa venirmi a dire che non è d’accordo. Vorrei concludere osservando che il canone Calvino non è ancora arrivato né credo arriverà mai al livello di Manzoni. Dico queste cose a freddo, anche perché Calvino l’ho letto, l’ho rispettato ma non l’ho mai amato. Però il nostro ha scritto molti libri e alcuni molto belli, non solo il più volte citato dai critici Le città invisibili, ma anche Giornata di uno Scrutatore, Palomar, e Lezioni Americane (che, piacciano o no, sono pur sempre terreno seminale per lunghe riflessioni), e senza contare l’ottimo lavoro filologico condotto intorno al sottobosco delle Fiabe italiane e all’Orlando Furioso. Conosco, e non sono pochi, studenti che lo leggono proprio per questi romanzi e ancora lo rispettano per la sua scrittura chiara, precisa e limpida e anche perché, nonostante rifiutino le pesanti architetture di cui infarciva le sue storie, tuttavia intuiscono a pelle quella “sostanza prettamente tragica” (come la definisce Sergio) che talvolta emerge, suo malgrado, dalle pagine dei suoi libri.