Con Un giorno perfetto per i pescibanana J.D. Salinger crea il personaggio di Seymour Glass, uno degli eroi del ‘900 letterario ma, ancor più, un eroe in assenza, protagonista di una saga famigliare di cui è il fulcro proprio in virtù del vuoto che vi lascia, elemento perturbante, non rimosso, lutto non elaborato, ombra di volta in volta consolatoria o ingombrante proprio in virtù della sua aura superumana. Il reduce Seymour Glass che, per certi versi, è un po’ l’alter ego dello stesso Salinger, muore suicida in questo che apre i Nove racconti, sparandosi un colpo alla testa dopo aver passato una tranquilla giornata al mare. Nella storia vi sono delle allusioni, ma di fatto non vengono spiegate le vere ragioni del gesto e il boato di quello sparo viene amplificato proprio dall’apparente serenità che lo precede. Perché scrivo di questo celebre racconto che non ha affatto bisogno delle mie note? Perché Un giorno perfetto per i pescibanana viene scritto nel 1947, pubblicato nel 1948 e poi raccolto nei Nove racconti nel 1953. All’epoca Salinger è già uno scrittore di fama mondiale, pertanto del volume viene subito approntata una traduzione italiana, pubblicata da Einaudi, a cura di Carlo Fruttero. Ecco che nove anni dopo, nel 1962, esce per Vallecchi la raccolta di racconti In società, opera di uno scrittore assai meno celebre ma altrettanto talentuoso, tormentato e isolato, Tommaso Landolfi. Al suo interno vi è pubblicato un racconto di chiara matrice dostoevskijana, La mattinata dello scrittore, in cui si parla, con evidenti agganci autobiografici, delle ultime vacue ore di vita di uno scrittore di provincia, che prima si arrovella per un verso mancato, poi per una relazione mancata, ma la cui punta massima di disperazione si registra quando si accorge di non trovare più il suo pacchetto di sigarette. Alla fine però succede qualcosa che modifica il quadro. Quasi per caso, per una decisione estemporanea ma allo stesso tempo “semplice e definitiva”, lo scrittore raccoglie la pistola che tiene nel cassetto e si spara. L’atmosfera nebbiosa e vagamente annoiata è la stessa del racconto dell’americano. E anche qui, pur nell’accennarsi dei motivi, manca del tutto un movente al suicidio del proprio alter ego. Per la prima volta Landolfi affronta, dietro lo schermo narrativo, la propria “volontà di morte”, e la critica vi legge un risvolto nichilista consono allo scrittore. Eppure, mi sono sempre chiesto se a far scattare quella particolare molla in Landolfi – magari complice Calvino consulente Einaudi – fossero stati i Pescibanana di Salinger. Se Landolfi, leggendolo, vi si fosse riconosciuto, avrebbe ritrovato in quell’americano “spostato” per i disastri della guerra, l’identico vuoto di sé che anche lui si sentiva dentro, fino al punto da replicarne le pulsioni che già lo animavano, per cercare di liberarsi, almeno in letteratura, del suo male di vivere. Inscenando, quindi, il delitto perfetto: la propria morte per mano dell’autore.
Nessun commento:
Posta un commento