Oggi ripensavo a Hapworth 16, 1924, l'ultimo racconto mai pubblicato in vita da Salinger, morto il 27 gennaio 2010 (occhio quindi, che fra pochi giorni c'è il decennale). Salinger lo pubblica nel 1965 sul New Yorker. Ventitre anni dopo, nel 1988, Roger Lathbury, un piccolo editore appassionato (in cui mi identifico) gli scrive, ma senza nessuna vera speranza, se può pubblicare il racconto in volume. Invece, contro ogni previsione, Salinger gli risponde di sì, ma lo fa circa otto anni dopo, nel 1996. Una storia all'apparenza a lieto fine, se non fosse che nel gennaio 1997 l'operazione editoriale viene sgamata dalla stampa, quando l'editore registra il copyright sul volume e concede innocentemente una prima intervista in cui si dice entusiasta di quella pubblicazione. Nel giro di pochissimi giorni l'uscita del nuovo libro di Salinger diventa un caso internazionale; a febbraio, senza che il libro sia ancora uscito, viene addirittura pubblicata la prima ferocissima stroncatura del volume a firma di Michiko Kakutani, sul New York Times. Salinger, indispettito, si tira indietro e non pubblica più nulla, ritenendosi tradito dall'editore, il quale fa pubblica ammenda, non si capisce per cosa visto che il lavoro dell'editore è registrare i libri, pubblicizzare la loro uscita e possibilmente venderli. Il vero perdente in questa storia è lui. Il libro, invece, diventa un oggetto di culto, o più semplicemente un titolo di quelli che non leggi ma devi sapere che ci sono, come il Finnegans Wake. Proprio come per il libro di Joyce, sul suo valore circolano le più svariate interpretazioni. Ad oggi la mia preferita è quella pubblicata sul blog 2000 battute: "J.D. Salinger si è preso gioco di tutti noi", ribadendo ancora una volta la superiorità dello scrittore Salinger sul suo pubblico, sul suo editore e persino sull'uomo che per un po' ha abitato.
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