domenica 17 dicembre 2023

leave her to heaven

 Visto ieri per la prima volta Leave Her to Heaven (1945) di John M. Stahl. Mea culpa, considerato che è in realtà un classico del melodramma noir, anche se nel particolare clima degli ultimi dibattiti italiani sul “patriarcato sì, patriarcato no” acquista delle sfumature particolari. Tutto il film, che ha il sapore di una tragedia greca in salsa hollywoodiana, è costruito sul complesso di Elettra di cui soffre la protagonista, la bellissima amazzone Gene Tierney, al punto da ribaltare completamente tutte le regole del noir classico secondo cui l’antieroe di turno (il duro dal cuore tenero) deve sì difendersi dall’infida dark lady, ma solo perché lui è innamorato di lei che il più delle volte – perché le dark lady nei noir sono donne sentimentalmente emancipate e per questo fanno paura – non lo ricambia o lo usa soltanto per raggiungere i propri scopi. In questo caso, invece, lui (Cornel Wilde) che è tutto fuorché un antieroe si fa accalappiare da lei che non solo lo ama, ma lo ama alla follia, di un amore possessivo e geloso, quindi del tutto disinteressato ma allo stesso tempo disturbato. Così che il romanticismo tipico di ogni amore patinato viene qui gonfiato fino a diventare paradossale e soffocante. Questo perché la protagonista è mossa da una passione incestuosa per il padre – morto non si capisce bene come, ma si insinua il dubbio del suicidio – e sceglie quindi di sedurre e sposare un uomo appena conosciuto (Cornel Wilde appunto) perché assomiglia al padre morto. Da ciò scaturiranno una serie di tragedie dove lui, vittima di cotanto ingombrante amore in cui fa da controfigura, subirà, da brava controfigura, il suo fato senza opporsi, rovinandosi la vita; e dove altri perderanno la vita, compreso il loro stesso figlio per cui lei non prova nessun affetto: perché lei vuole restare figlia, non diventare madre. Tutto ciò viene intinto in un technicolor luminosissimo che fa molto Peyton Place e avvolge di una luminosità tanto ipocrita quanto bigottamente americana ogni possibile ombra. E anche in ciò vi è qualcosa di sovversivo rispetto al canone solito del noir, che si rifaceva invece a stilemi desunti dall’espressionismo tedesco: tutto in bianco e nero e pieno di chiaroscuri d’ambiente che riflettevano quelli interiori, con violenti contrasti di luce che spesso annullavano prospettiva e profondità di campo per proiettare l’azione in uno spazio angusto, indeterminato e onirico. Qui tutto è (apparentemente) chiaro e spazioso, addirittura ambientato in angoli di paradiso terrestre incontaminati e separati dal resto mondo. Troppo bello per essere vero, al punto da suonare falso e creare un sottile e continuo stato di inquietudine. David Lynch, immagino, lo avrà sicuramente tenuto a mente pensando al suo Twin Peaks.



 

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