domenica 17 dicembre 2023

lavoro duro

Ogni tanto qualcuno, parlando del suo libro o manoscritto, mi dice “eh, ci ho lavorato tanto” come se fosse un titolo di merito o una giustificazione ai suoi possibili difetti. Ma questo, sinceramente, non significa granché. Se si potesse quantificare la qualità di un’opera in tempo dedicato alla scrittura, basterebbe timbrare il cartellino per 8 ore al giorno per un certo numero di anni e ciascuno di noi porterebbe a casa due o tre divine commedie prima di andare soddisfatti in pensione. Purtroppo non funziona così, la cura che ci metti può essere ammirevole da un punto di vista umano e professionale, ma la qualità di un’opera si regge su altri presupposti: sul labor limae in alcuni casi, certo; ma sull’istintiva illuminazione in molti altri; sulla capacità di visione che ci permette di osservare, come da un satellite, il nostro tempo o addirittura intuire quello futuro (ma sempre col senno di poi); ma anche su una genuina e brutale ineleganza, scaturita dall’emergenza di dire tutto e subito, che spesso sbaglia completamente il tiro ma vince in espressione; e anche sul coraggio, se occorre, di buttare nel cesso ore e ore di lavoro, di scrittura a cui ci siamo affezionati, in cui ci siamo esposti in prima persona, per assecondare l’opera che cresce e ci domanda di farci un po’ da parte per mettersi in luce e respirare da sola.

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