Premio Mia Martini 2006. Fra gli ospiti c’è Franco Califano a cui chiedono di recitare uno dei suoi monologhi. Califano all’inizio sembra un po’ imbarazzato, dice che hanno un linguaggio poco “vaticanesco”, però cede e recita il meno spinto, «un monologo sul dubbio di una paternità che si chiama Pasquale l’infermiere». Prima di recitarlo lo introduce così: «ho scritto questi monologhi tantissimi anni fa, e perché io ero “poco” si chiamavano “le storielle di Califano”, e qualche moralista, finto moralista naturalmente, storceva il naso; poi, dopo, con l’aumentare del successo hanno cominciato a chiamarsi “monologhi”; quando sarò scomparso si chiameranno “sonetti”, perché in questo paese muori e sarà vera gloria». E qui, sulla parola “sonetti” ti rendi conto di quanto ci fosse alla base dei “monologhi” di Califano, che sono anche triviali, ma attingono a una tradizione colta e popolare insieme, in primis alle poesie in romanesco di Giuseppe Gioacchino Belli (che insieme al milanese Carlo Porta è stato forse il più grande poeta dell’Ottocento italiano), e sarebbe bello che i suoi tanti ascoltatori non solo lo riconoscessero a Califano, ma lo avessero letto insieme a lui.
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