Film commovente, di grandissima bellezza visiva, La viaccia (1961) di Mauro Bolognini, con Jean Paul Belmondo, Pietro Germi e una Claudia Cardinale al culmine della sua bellezza, segna il passaggio dalla sua prima fase artistica, più originale sul piano dei contenuti attraverso le sceneggiature, spesso di Pasolini, alla seconda, dove si attiene a realizzare raffinate trasposizioni di opere letterarie, spostando il contenuto sullo stile, dove insomma il contenuto è lo stile. Non a caso il confronto con Visconti. Qui però le atmosfere rimandano ancora alla prima fase più nichilista e pregna di mal di vivere delle sue più recenti pellicole con Pasolini (non a caso torna la Cardinale come nel Bell’Antonio a dare volto a un amore tanto necessario quanto impossibile da trattenere). E infatti, lancio un parallelo, secondo me il finale con Jean Paul Belmondo che dopo aver dichiarato a sua madre che non può vivere senza di lei, attraversa correndo Firenze per rivederla sulle note della “Rapsodia per sassofono e orchestra” di Debussy ha secondo me una eco nel successivo Manhattan (1979) di Woody Allen, dove l’identica scena si ripete a New York sulla “Rapsodia in blue” di Gerswhin. Nel film di Bolognini questo amore è già segnato e infatti Ghigo (Belmondo) riuscirà a rivedere Bianca (Cardinale) scomparire dietro un vetro prima di allontanarsi per sempre, nel film di Allen, pur nell’imminente separazione, Allen offre una speranza a questo amore nell’ultima battuta di Tracy (Mariel Hemingway), “bisogna avere un po’ fiducia nella gente” e nel mezzo sorriso di Allen, uno dei suoi pochissimi su pellicola, che sembra quasi fare il verso a quelli così vulnerabili del giovane Belmondo.
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