Libro sul senso ultimo di tutte le guerre, da leggere e rileggere, ANATOMIA TITO FALL OF ROME (L'Orma ed., 2017), riscrittura del Tito Andronico di Shakespeare a opera di Heiner Müller, contrappone due diverse idee di guerra, una “affaristica”, portata avanti dall’antica Roma che rappresenta qualsiasi potenza coloniale della storia e una più emotiva, bestiale, etnica o religiosa, portata avanti dai Goti assediati, che rappresentano “l’irruzione del terzo mondo nel primo mondo”. Divisi fra queste due concezioni della guerra, si salva nessuno in questo dramma? No. Sono tutti orrendi assassini, traditori, gente o pieno d’odio oppure calcolatrice. Così il generale Tito, “eroe” di Roma è in realtà un freddo calcolatore che prova a usurpare il potere imperiale con l’astuzia, prima favorendo come imperatore il candidato più debole e offrendogli in sposa sua figlia per meglio controllarlo per poi, quando da questi tradito, allearsi coi Goti contro Roma, per mettere suo figlio Lucio al posto dell’imperatore con la violenza. Lucio che prima si allea coi Goti poi una volta preso il potere li scaccia dalla capitale rinfacciandogli che “il Goto è un negro è un ebreo”, smascherando in questo modo l’evidente razzismo che si cela dietro ogni conquistatore. Né i Goti, d’altronde, sono da meno, se mossi da un odio atavico perpetrano stupri di gruppo e mutilazioni sulle donne, ammazzano bambini senza colpa perché meticci, godono dell’umiliazione del nemico. Lì dove ciascuno rimprovera all’altro le sue colpe senza mai ammettere le proprie e il tutto viene suggellato dalla battuta “Fate che il vostro dolore non muoia come sono morto io”, ovvero non smettere di soffrire, di ricordare come sono morto ingiustamente e di trasformare il vostro ricordo in odio. In tal senso la figura chiave della vicenda è proprio quella del generale Tito, che è un uomo di potere, mosso esclusivamente dalla ragion di stato e dal calcolo, che diventa pazzo quando la vendetta dei Goti lo smuove e lo fa entrare nell’altra dimensione della guerra, quella delle vittime, motivata esclusivamente dall’odio e dalla brutale vendetta. In questo senso Müller parla di “irruzione”, nel senso di assimilazione di una mentalità ferina, viscerale, in una affaristica della guerra, e dove, per vincere, il gerarca non può che abbandonarsi ai propri istinti esattamente come i suoi nemici. Müller diceva con amore che di Shakespeare “odiava” la perenne attualità. A me è capitato di leggere questo testo mentre il papa chiedeva di trovare il coraggio per arrendersi e trattare. Probabilmente lo chiedeva alla classe politica. Ma mi sono chiesto, per noi che siamo abituati a considerare la guerra solo in questa chiave “affaristica” (si fa la guerra per soldi, per interesse, quindi soddisfatto l’interesse la guerra può finire e chi è stato stuprato sia silenziato per il bene di tutti), come si fa a chiedere di concludere una guerra motivata dall’odio etnico o religioso che sia (e parlo di una qualsiasi guerra africana o mediorientale)? Con quali parole? Se io ti voglio morto per nessun’altro motivo che ti odio, al punto da considerarti meno di una mosca da stritolare sul tavolo (per usare un’immagine di Müller), come farò mai a venire a patti ragionevoli con te? Come faccio a trovare un accordo sul piano “economico” se tutto ciò che mi interessa è vederti annientato come uomo? Serve molto più che un bravo mediatore per questo. E infatti nell’opera di Müller, così come in quella di Shakespeare, perché ci sia finalmente la pace devono morire tutti, in una sorta di massacro corale che cancellerà ogni memoria o rancore, meno che Lucio, il futuro imperatore, che avendo combattuto su entrambi i fronti ha assimilato i linguaggi di entrambi.
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