Adesso che ha vinto la pigrizia non ne faccio quasi più, ma anche prima, quando partecipavo ai reading, preferivo sempre leggere, rispetto alle mie, le poesie degli altri, perché alla fine la poesia è condivisione di qualcosa che ti piace e sinceramente io non mi piaccio un granché. La poesia mi piace ancora, invece, anche se mi stanca parecchio. Ma prendendo insieme le volte che ho letto, posso dire che almeno fra le mie scelte le due poesie che in assoluto piacevano di più al pubblico, avevano in comune una cosa: il dialetto di Santarcangelo di Romagna, un luogo bellissimo che ho visitato anni fa con Clery Celeste. Delle due, una poesia d'amore delicatissima era di Raffaello Baldini e si chiamava IN DEU (In due) e l'altra, di Nino Pedretti, era E’ MI BA (Il mio babbo), che penso sempre contenga i versi più belli in assoluto mai scritti su questo argomento, e quella parola "sgangarèd" (sgangherato) che ti balla sulle ossa come un vestito troppo grande e tenuto stretto dalla cinta, l'odore buono della povertà e della terra, tanto che ogni volta che leggo i tre versi finali di quella poesia me li sento cuciti addosso come fossero miei in un'altra lingua. E sono versi, aggiungo, scritti in dialetto perché la lingua dei padri, o meglio ancora la nostra lingua affettiva è nel dialetto, cioè dentro la pancia, o meglio fra la pancia e la gola, non nell'italiano, che sta sopra, nella testa. L'italiano viene dopo, già traduce. E la poesia di Pedretti, bellissima, finisce così:
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