Per molto tempo hanno definito “La solitudine del Satiro” di Ennio Flaiano un libro inclassificabile. Lui lo costruì mettendo insieme una serie di articoli scritti per vari giornali (da Il Mondo al Corriere della Sera) con cui collaborò a uscite settimanali o bisettimanali e quasi ininterrottamente dal 1956 al 1972. Ogni articolo è costituito da una serie di frammenti di carattere personale – fra apologhi, sogni, ricordi, battute, malumori, opinioni su libri o film visti o realizzati, considerazioni sul mondo della scrittura e dell’arte, del costume, sulla società che cambia, sulla vita in genere o attraverso alcuni ritratti particolari – che formano nel loro insieme (conta più l’atmosfera generale che la singola battuta per cui Flaiano resta famoso) una sorta di immenso diario di viaggio, dove la differenza la fa il “tu” a cui vengono indirizzati. Perché i diari si scrivono quasi sempre per se stessi o per un “tu” ipotetico che sono la storia e i posteri; mentre i testi contenuti in questo libro sono stati scritti per un pubblico anche molto vasto, per un “tu” che sta dall’altra parte del giornale, da qualcuno che rimane al di qua della pagina. Un pubblico di cui non conosce il volto, le abitudini, che lo legge, ride con lui, ma non lo vede per com’è davvero, parla con lui ma senza guardarlo negli occhi, da cui “la solitudine” di chi si racconta. Alla fine viene da pensare che “La solitudine del Satiro” fosse inclassificabile soltanto perché venne pubblicato quando ancora non esistevano i social. Se faceste una raccolta di post dalla bacheca di un uomo interessante, con punte di cupezza ma pieno di humor, settimana dono settimana per circa quindici anni, post che raccontano la sua vita e i suoi pensieri sull’arte e sul mondo, credo non si avrebbe qualcosa di molto diverso da questo libro. Ed è un motivo per cui pur affrontando fatti così lontani nel tempo appare ancora oggi così moderno, così fresco e incisivo. L’altro motivo è lo stile della sua scrittura. C’è una pagina molto bella in cui Flaiano racconta della discussione con un amico che lo rimprovera di usare uno stile troppo nitido, poco avventuroso ed elaborato, poco sperimentale. Flaiano risponde che lo stile sperimentale che cerca l’amico è già nelle parlate quotidiane di ogni italiano, nelle cui bocche si rimpastano dialettismi e termini colti ripescati dalla memoria, dalla pubblicità o dalle canzoni, regionalismi, tic e gergalità varie, fino a creare una lingua unica e irripetibile per ciascuno. Tutto questo se portato sulla pagina spesso suona falso, goffo, ma è semplicemente un’imitazione, mentre la pura chiarezza del testo, che non esiste in natura, quella sì che è veramente sperimentale, perché nella sua ricercata chiarità è già astratta. Non databile. A proposito di tempo, c’è un piccolo non detto che chiude questo libro, che si muove a cadenze ben definite fino a gennaio 1972, poi c’è un vuoto di circa sette mesi, e riprende coi suoi ultimi quattro articoli fra settembre e novembre 1972, quando Flaiano già malato muore. Tutto è immaginabile di quel vuoto, eppure, dopo aver famigliarizzato con lui così a lungo, non si può fare a meno di chiederselo (ed è ancora, mi accorgo, una curiosità molto social, che rifugge il pudore, ma vive di picchi emotivi): dov’è finito, che avrà visto e pensato Flaiano in quel buco di sette mesi in cui si preparava morire? O meglio ancora, cosa avrebbe scritto Flaiano nella sua ultima estate?
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