Prima non volevo farlo, poi ci sono andato. I sensi di colpa ci fregano sempre, mi ha detto Adriano. Nonostante la morte, l’espressione di Carlo era serena. C’era un pubblico bellissimo, tutto fatto di attori, teatranti, amici, servi di scena, il miglior pubblico per un addio a un regista. E ogni volto che vedevo mi ricordava uno spettacolo, da Cechov a Molière, dalla commedia dell’arte a Goethe a Brecht. Vita e teatro si confondevano. Nel ricordare mi sono commosso. Ho messo sul piatto della bilancia tutto ciò che Carlo mi ha lasciato, Brecht per cominciare, ma anche Heiner Müller, Schnitzler, Tommaso Urselli, e alcuni altri libri che mi passava come per caso, in maniera quasi svagata, ma studiatissima, dicendomi: Questo ti piacerà. Faceva sempre così Carlo, amava condividere tutto ciò che aveva, dal castagnaccio che preparava con le sue mani ai libri, tuoi o di altri. Perché se qualcosa gli piaceva difficilmente la teneva per sé, piuttosto la regalava. Ed era un segno di rispetto, voleva dire che quel libro non era fatto per stare chiuso in casa ad ammuffire, ma doveva girare, farsi leggere, conoscere. Insomma, era inutile fargli le dediche, non erano quelle a toccarlo. L’ultima volta che abbiamo parlato di libri mi disse che stava rileggendo I promessi sposi di Manzoni. È un libro magnifico, mi ha detto, ma io mi sono augurato che non provasse a regalarmelo. Mentre oggi sulla sua bara, tra i fiori, donatogli non so da chi, c’era un testo di Molière tradotto da Cesare Garboli. Il misantropo. Quello gliel’ho invidiato, ecco un libro perfetto da portarsi dietro nella morte. C’è un passaggio di quell’opera che dice: «Il mio corpo è il mio io, e solo io me ne voglio prender cura. / È uno “straccio”, è vero lo ammetto, ma lo straccio mi è caro». Che è tutto ciò che Carlo ha messo in pratica con un rigore e una coerenza estremi, portando nella vita il suo teatro.
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