Le ultime pagine della "Solitudine del Satiro", scritte fra settembre e novembre 1972 per il Corriere della Sera, sono fra le più politiche, personali e malinconiche di Flaiano e meritano uno scritto a sé. Il primo di questi quattro articoli, 3 settembre, è anche (nella prima parte) fra i più citati dai suoi estimatori. Comincia così: “Appartengo alla minoranza silenziosa” e prosegue con la descrizione di uno stato in cui la chiarezza non esiste, la verità non esiste, “la linea più breve fra due punti è l’arabesco” e prosegue col dialogo con Maccari in cui divide l’Italia fra fascisti e antifascisti, dove per ciascuna delle due categorie la causa è soltanto una scusa per esprimere la propria intima violenza: “Ossia ognuno vuole la sua versione della libertà, che consiste nel sopprimere quella dell’altro. La libertà comunemente intesa, quella per esempio di esprimere le proprie opinioni, è una cosa da disprezzare perché bene o male l’abbiamo.” Il pezzo termina con un commento amaro a un film di Ferreri appena uscito, “La cagna”, tratto da un suo racconto, "Melampus", in cui Flaiano (che avrebbe voluto farne un film diretto da lui, senza riuscirci) diceva di non riconoscersi: “Eccomi dunque decaduto dalla mia qualità di autore”. L’articolo del 10 settembre è scritto dal festival del cinema di Venezia ed è una fantasia che parte (dice) da una lettera anonima: Chaplin, ospite del festival, viene omaggiato dai tanti registi italiani (De Sica, Antonioni, Zavattini, Fellini, Ferreri, “unico assente giustificato Visconti”) che da lui hanno attinto per il proprio cinema. In realtà non ci andò nessuno a omaggiarlo il “vecchiaccio”, ma leggendo, a parte l’ovvia espressione d’amore per uno dei padri del cinema, c’è il sospetto è che nelle sue parole Flaiano, che tanto al cinema sentiva di aver dato come sceneggiatore, si stia riferendo anche un po’ a se stesso: malato e prossimo alla morte, non si fece vedere nessuno. L’articolo del 28 ottobre comincia con un viaggio a Napoli (“Vi interessa un po’ di contrabbando?” chiede un giovanotto accostandosi alla macchina di Flaiano, a cui invece serve un’informazione stradale; “Sigarette o droga?” chiede Flaiano incuriosito, “No. Orologi svizzeri”, che costano un milione ma ci può accordare per ventimila lire) e prosegue con una presa per il culo di una famiglia di contestatori che non sa che mettersi per andare a una manifestazione per rifare la società, che è in tutto e per tutto una anticipazione di “Quando è moda è moda” di Gaber. Chiude il pezzo del 5 novembre, in cui Flaiano ricorda il suo arrivo a Roma da bambino, cinquant’anni prima, per andare in collegio. Era la Roma del 1922, la Roma della gran festa fascista dove qualcuno aveva danneggiato la statua della Giustizia, manomessa della bilancia sostituita da una spada, evidente simbolo fallico, si vendevano in farmacia i preservativi marca Fascio e Ardito, i bordelli erano all’apice della loro fortuna e anche se nelle scuole i ragazzini facevano la caricatura di Mussolini, la città conquistata era pervasa da un’euforia sessuale che metteva da parte ogni razionalità in vista della grande orgia che si annunciava. È uno scritto acuto e malinconico l’ultimo pubblicato da Flaiano, che un pochino anticipa (ma senza nessuna carica necrofila) alcuni temi del prossimo “Salò” di Pasolini nell’indicare il preciso connubio fra potere e liberazione sessuale che si fa caricatura grottesca e spesso si esprime in violenza (per tornare al dialogo con Maccari), e soprattutto sembra riflettere e agganciarsi all’ultimo film di Fellini, chiamato appunto “Roma”, un film che probabilmente Flaiano sentiva anche suo, in cui in parte si riconosceva pur non avendovi partecipato e a cui forse avrebbe voluto partecipare, ricucendo magari un’amicizia rovinata dal successo, prima dell’ultimo saluto.
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