Inizio a non sopportare più quelli che dicono che la cultura salverà questo paese. Siamo tutti moralmente convinti che la cultura salverà questo paese, ma non si capisce come, forse scendendo dal cielo come una fiammella sulle nostre teste, come fa lo spirito santo. Forse ci crediamo anche, ma è appunto una convinzione ottimistica, un dovere morale più che una gioia del cuore, quasi un impegno, come una volta era un dovere andare a messa la domenica mattina. E gli impegni pesano, tanto più che, fondamentalmente, a noi della cultura non ce ne frega nulla, siamo onesti. Così la deleghiamo ad altri, in modo da sentirci la coscienza a posto perché qualcuno ci deve pensare e ci pensa anche per noi; e ogni tanto ricordandoci, con piglio affaristico, di chiedere un rendiconto dei risultati, anche economici, con tanto di premialità aziendale per i generi più redditizi: la cultura del cibo ad esempio è sul podio, enormemente più prestigiosa di quella del libro, che non è nemmeno l’ultima della lista; il cinema se la passa male, la musica così così, come la poesia, ma sempre meglio del teatro, che è quasi morto; il teatro d’opera è morto del tutto ma resta lì come un santino; quella paesaggistico/architettonica non è più nemmeno considerata cultura: tanto è vero che è soggetta senza vergogna da più di settant’anni a scempi di ogni tipo, dall’abusivismo edilizio delle periferie, alla distruzione di massa di opere già esistenti ma che “non vediamo più” in questo paese che un po’ è un cantiere a cielo aperto e un po’ un porcile senza muri di contenimento. Cantiere e porcile ogni tanto si incontrano e lì periodicamente succede qualche disastro che ci ricorda come l’etica non sia soltanto una parola da cercare sul vocabolario, prima di tornare nel dimenticatoio della cultura. Ma tutto questo succede sempre e soltanto per causa nostra, perché a furia di delegare gli altri di cose che dovrebbero starci a cuore, dimenticandoci di preciso cosa abbiamo intorno, ci siamo fatti tutti ciechi, e allora abbiamo cominciato ad affidarci alla santa provvidenza che prima o poi scenderà dal cielo e risolverà ogni cosa, ogni bruttura. Se questa nostra povera cultura è ridotta ormai a un commercio della fede – una cosa indegna perché la riduce, la depotenzia –, se è ridotta all’osso, all’elemosina, alla pietà dei poveri, è perché a parole sì, ma non l’amiamo, ci sta sul culo più che nel cuore, ci pesa pure il nome. Uno dice cultura e l’altro sbuffa! E non lo dico ai politici, non lo dico ai potenti, lo dico a mio padre, al mio vicino, al mio migliore amico, al mio futuro sindaco, al fruttivendolo, a quello che mi commenterà questo post (se arriverà a leggerlo tutto), perché io la vedo ogni giorno, sulla mia pelle, la differenza che passa fra chi dice di amare i libri e chi li legge davvero. L’amore fatto a parole è tanto bello ma è una finzione. La cultura non salverà un bel niente, fidatevi, è già tanto che si salvi Lei da noi.
1 commento:
Ecco
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