Ho finito da poco di leggere un libro splendido ma che, ammetto, mi ha lasciato un amaro in bocca di quelli che ti porti dietro il retrogusto per giorni. Il libro si intitola Quel che resta del giorno ed è stato scritto da Kazuo Ishiguro. Dal libro è stato tratto nel 1993 un film bellissimo e struggente diretto da James Ivory, con Anthony Hopkins e Emma Thompson, che però non rende giustizia agli intenti del romanzo. Di per sé la storia è semplicissima. Nella prima metà del ‘900 un maggiordomo inglese è talmente ligio al suo dovere da lasciarsi scappare poco per volta, al servizio del suo padrone, che poi si scoprirà essere (per ingenuità) un filonazista, tutte le piccole gioie che la vita gli potrebbe offrire fino al culmine rappresentato dalla perdita della donna amata. Si potrebbe considerare la storia di un fallimento. E così la interpreta il film, e così molti l’hanno letta. Ma questo non basta, ancora non rende giustizia al senso del romanzo.
Ho letto in giro alcune recensioni per chiarirmi le idee e tutte colgono qualcosa senza che nessuna convinca però del tutto. Una ragazza, ad esempio, su un forum lamenta di essersi annoiata in quanto non succede niente. E per quanto sia un discorso approssimativo è anche inopinabile: tutto il romanzo vive di piccoli scarti, episodi insignificanti o marginali, due interi capitoli sono dedicati a un ricevimento e a una importante discussione in salotto, altri si perdono dietro conversazioni in merito all’andamento del personale o alla pulizia delle posate e alla fine della vita privata (e sentimentale) dei protagonisti non resta quasi nulla, appena pochissimi accenni perduti nell’immensa matassa di considerazioni sul lavoro. E invero non è un romanzo facile da leggere, scorre via piuttosto lentamente per quanto non sia molto lungo.
Un altro, su un blog, diceva che la cosa che apprezzava di più della storia fosse il fatto che Mr Stevens, il protagonista e narratore, non fosse un testimone attendibile, che il suo racconto fosse pieno di falle, menzogne palesi, omissioni, tutte tese a distrarre l’attenzione del lettore dal suo reale pensiero, che ovviamente è invece chiarissimo. Tutto il libro è costruito così, come un lungo tentativo di raccontarsi negando, senza mai svelarsi del tutto e questo ovviamente non si poteva mettere nel film, che di conseguenza perde completamente questa caratteristica, acquistando però in fluidità e dando maggiore risalto al personaggio di Miss Kenton, la donna che Stevens ama.
Ma nemmeno questo è il succo, e neanche il finale fatto della morale spicciola che bisogna (si può solo) andare avanti con fiducia, perché la parte più bella della giornata è la sera, come gli viene detto da un passante con cui scambia poche parole nelle ultime pagine. No. In verità la chiave del libro si trova nel penultimo capitolo, quando viene chiesto a Mr Stevens di dire la sua, durante un discorso in cui si cerca di definire cosa sia la dignità. E Stevens risponde: “ho il sospetto che sostanzialmente consista nel non togliersi i panni di dosso in pubblico.” Cosa che in parte giustifica quanto detto sopra, ma ancora di più apre uno spiraglio sul senso del libro e sulla vera natura di Stevens, non un personaggio così grigio e insignificante come può apparire nella descrizione che lui stesso fa di sé.
Per quel che ne penso io Quel che resta del giorno è un romanzo sulla dignità e sul perseguimento della stessa. Mr Stevens in cuor suo è un personaggio molto classico, molto “romano” mi verrebbe da dire, permeato degli stessi ideali di quel mondo. Proprio come un soldato romano il suo interesse personale viene sacrificato costantemente alla causa, cioè seguire il proprio generale fino in fondo, credendo ciecamente in lui. Questo fa Stevens per tutto il libro. Per il proprio generale, per il suo signore, Sir Darlington, sacrifica tutto, persino Miss Kenton. E lo fa perché è convito che la causa perseguita dal suo padrone, la pace fra Inghilterra e Germania nazista, sia più alta e importante di lui e dei suoi bisogni. Quando, a un certo punto, Miss Kenton cerca di parlargli per fargli capire che andrà via con un altro se lui non farà niente per trattenerla, lui, che in quel momento è indaffarato per conto del suo padrone, le risponde che quello non è il momento perché di là si sta discutendo dei problemi del pianeta. Potrebbe sembrare una follia oggi, perché quel concetto di dignità non esiste più, ma c’è della nobiltà antica in questo. In fondo la natura di Stevens è nobile. Il suo è il tentativo di partecipare alla realizzazione di un mondo migliore e a questo scopo sacrifica tutto se stesso. La delusione finale di Stevens consiste nel rendersi conto del fatto di avere lottato e sacrificato l’intera sua vita senza ricevere in cambio il suo premio. Che non è Miss Kenton, per rivedere la quale, ormai anziano, si mette in viaggio attraverso l’Inghilterra (viaggio che gli darà l’occasione di ripensare al suo passato) ma, in linea coi principi classici di cui è formato, avrebbe dovuto consistere nella gloria del suo signore e, per riflesso, della sua. Il suo signore invece è caduto in disgrazia dopo la fine della guerra, è morto ed è stato dimenticato. Ora persino parlare di lui crea imbarazzo. Mr Stevens ha servito il padrone sbagliato e si è ritrovato a sacrificare se stesso per una causa che la storia non vuol ricordare. Per lui che ha dato tutto quello che aveva da dare alla causa della storia, nella storia non ci sarà posto. “Io mi sono fidato” e il suo ultimo amaro commento, a chiusura del libro. Tutto quello che gli resta è una lunga sera da vivere.
Ho letto in giro alcune recensioni per chiarirmi le idee e tutte colgono qualcosa senza che nessuna convinca però del tutto. Una ragazza, ad esempio, su un forum lamenta di essersi annoiata in quanto non succede niente. E per quanto sia un discorso approssimativo è anche inopinabile: tutto il romanzo vive di piccoli scarti, episodi insignificanti o marginali, due interi capitoli sono dedicati a un ricevimento e a una importante discussione in salotto, altri si perdono dietro conversazioni in merito all’andamento del personale o alla pulizia delle posate e alla fine della vita privata (e sentimentale) dei protagonisti non resta quasi nulla, appena pochissimi accenni perduti nell’immensa matassa di considerazioni sul lavoro. E invero non è un romanzo facile da leggere, scorre via piuttosto lentamente per quanto non sia molto lungo.
Un altro, su un blog, diceva che la cosa che apprezzava di più della storia fosse il fatto che Mr Stevens, il protagonista e narratore, non fosse un testimone attendibile, che il suo racconto fosse pieno di falle, menzogne palesi, omissioni, tutte tese a distrarre l’attenzione del lettore dal suo reale pensiero, che ovviamente è invece chiarissimo. Tutto il libro è costruito così, come un lungo tentativo di raccontarsi negando, senza mai svelarsi del tutto e questo ovviamente non si poteva mettere nel film, che di conseguenza perde completamente questa caratteristica, acquistando però in fluidità e dando maggiore risalto al personaggio di Miss Kenton, la donna che Stevens ama.
Ma nemmeno questo è il succo, e neanche il finale fatto della morale spicciola che bisogna (si può solo) andare avanti con fiducia, perché la parte più bella della giornata è la sera, come gli viene detto da un passante con cui scambia poche parole nelle ultime pagine. No. In verità la chiave del libro si trova nel penultimo capitolo, quando viene chiesto a Mr Stevens di dire la sua, durante un discorso in cui si cerca di definire cosa sia la dignità. E Stevens risponde: “ho il sospetto che sostanzialmente consista nel non togliersi i panni di dosso in pubblico.” Cosa che in parte giustifica quanto detto sopra, ma ancora di più apre uno spiraglio sul senso del libro e sulla vera natura di Stevens, non un personaggio così grigio e insignificante come può apparire nella descrizione che lui stesso fa di sé.
Per quel che ne penso io Quel che resta del giorno è un romanzo sulla dignità e sul perseguimento della stessa. Mr Stevens in cuor suo è un personaggio molto classico, molto “romano” mi verrebbe da dire, permeato degli stessi ideali di quel mondo. Proprio come un soldato romano il suo interesse personale viene sacrificato costantemente alla causa, cioè seguire il proprio generale fino in fondo, credendo ciecamente in lui. Questo fa Stevens per tutto il libro. Per il proprio generale, per il suo signore, Sir Darlington, sacrifica tutto, persino Miss Kenton. E lo fa perché è convito che la causa perseguita dal suo padrone, la pace fra Inghilterra e Germania nazista, sia più alta e importante di lui e dei suoi bisogni. Quando, a un certo punto, Miss Kenton cerca di parlargli per fargli capire che andrà via con un altro se lui non farà niente per trattenerla, lui, che in quel momento è indaffarato per conto del suo padrone, le risponde che quello non è il momento perché di là si sta discutendo dei problemi del pianeta. Potrebbe sembrare una follia oggi, perché quel concetto di dignità non esiste più, ma c’è della nobiltà antica in questo. In fondo la natura di Stevens è nobile. Il suo è il tentativo di partecipare alla realizzazione di un mondo migliore e a questo scopo sacrifica tutto se stesso. La delusione finale di Stevens consiste nel rendersi conto del fatto di avere lottato e sacrificato l’intera sua vita senza ricevere in cambio il suo premio. Che non è Miss Kenton, per rivedere la quale, ormai anziano, si mette in viaggio attraverso l’Inghilterra (viaggio che gli darà l’occasione di ripensare al suo passato) ma, in linea coi principi classici di cui è formato, avrebbe dovuto consistere nella gloria del suo signore e, per riflesso, della sua. Il suo signore invece è caduto in disgrazia dopo la fine della guerra, è morto ed è stato dimenticato. Ora persino parlare di lui crea imbarazzo. Mr Stevens ha servito il padrone sbagliato e si è ritrovato a sacrificare se stesso per una causa che la storia non vuol ricordare. Per lui che ha dato tutto quello che aveva da dare alla causa della storia, nella storia non ci sarà posto. “Io mi sono fidato” e il suo ultimo amaro commento, a chiusura del libro. Tutto quello che gli resta è una lunga sera da vivere.
7 commenti:
il film mi era piaciuto, ma capisco dalle tue parole che dovrò leggere il libro.
dignity, come dice bob dylan...
infatti ero incerto se mettere quella come canzone, ma poi ho optato per qualcosa di più "serale"...
è un tema che mi prende... di getto mi chiedo: la dignità è per se stessi e le proprie convinzioni o per il proprio ruolo?
simona
bella domanda...
dignità è relativa, come tutti gli altri valori del resto. nel baratro tra ciò che è dignitoso e ciò che non lo è sta la libertà. e comunque ci vedo qualcosa di freudiano in questo dilemma. sempre piacere di leggerti.
mmmh? freudiano? sì forse, la lingua batte dove il dente duole, no?
Poco conto ha oggi la dignita', condizione personale, in un vivere dove del personale interessa poco e niente.
peccato che non si senta Bob, vado a cercarmela.
Un saluto
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