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martedì 19 gennaio 2010

la poesia del mignolo

Manu sul suo blog ci parla del fondamentale lavoro di limatura necessario a un testo. È strano perché appena mezz’ora prima di leggere il suo post mi son ritrovato a parlare con una collega che mi confessava di non rileggere mai quel che scrive. In fondo è cronaca, dice. E a qualcuno importa e a molti altri no, si potrebbe concludere. E, a meno che tu non abbia delle ambizioni particolari, nessuno verrà mai a rimproverarti. È già tanto che ti leggano per sapere chi è morto e chi ha truffato chi, figurati interrogarsi sullo stile.
Io sto leggendo in questi giorni un libro di Aldo Nove basato su un ipotetico incontro avvenuto fra Hopper e Carver. Il libro si intitola Si parla troppo di silenzio, e l’idea alla sua base secondo me è splendida. Peccato che la scrittura sia invece inadeguata al materiale. Io trovo che sia un libro scritto male, considerato che si tratta di Nove. Secondo me non ci si è nemmeno impegnato, limitandosi spesso a ricopiare del materiale estratto dalle fonti. Eppure regge, alla fine regge. Magari tanta sciattezza, ti dici per farti coraggio, è pure voluta, che ne sai? Magari è la solita sperimentazione di Aldo Nove.
E poi quella del labor limae, per dirla come Orazio, è in fondo una gran rogna. Mica facile sviluppare un senso autocritico tale da portarti alla perfezione. Sbagliano anche i grandi a volte. Hemingway in un suo racconto che parlava di un suicidio a cui aveva assistito e intitolato Fuori Stagione, a furia di togliere e togliere per migliorarlo, alla fine tolse anche la fine e del suicidio non si capì più nulla (l’aneddoto è riportato dalla Pivano nella sua introduzione ai 49 racconti). E Carver, che spesso si cita come massimo esempio di sobrietà, ancora più spesso non toglieva lui, ma i tagli gli venivano imposti da Gordon Lish, il suo editor, con vere e proprie crisi depressive da parte dell’autore. A Erri de Luca, da molti ritenuto il più essenziale ed elegante degli scrittori italiani viventi, viene affibbiato da alcuni critici l’aggettivo di dannunziano. Come dicevo prima, una vera rogna.
Anche perché questi alla fine sono giudizi esterni all’autore. Per uno scrittore le cose essenziali sono altre. Certo creare bellezza è fondamentale. E il futuro, credo, va tutto verso la brevità dell’intervento. Meno lettere scrivi e meglio è. In questo la poesia sarebbe avvantaggiata, se il mercato avesse un pelo di interesse in più per lei. Ma alla fine uno scrive quello che sente di dover scrivere e ci lavora su finché non lo sente perfetto. È tutto qui l’atto creativo. Poi è il mondo a giudicare. Ma lui, l’autore, se è riuscito a parlare di sé in maniera non banale, il suo sporco lavoro l’ha già fatto. La cosa più importante è restare onesti, per quanto difficile. Parlare sempre col cuore in mano. Ed essere umili.
Le poesie più belle di Montale, in fondo, sono quelle per Drusilla Tanzi in Xenia, lei oramai scomparsa e ridotta da lui a un insetto infinitesimale, a una mosca: poche cose della vastissima produzione dei suoi ultimi anni valgono quelle 14 poesiole. Ungaretti sui pochi scarni versi che descrivono Moammed Sceab o i fiumi della sua Allegria ci ha costruito interi mondi (tutti un po’ desertici nella mia mente) che ancora sogniamo. La Lamarque in Teresino ha compiuto il miracolo di un linguaggio semplicissimo ma perennemente in bilico fra ansia di vivere e dolcezza, che arriva dritto al cuore e non ne esce più.
E anche io spero un giorno di lasciare la traccia più viva di me per le poesie dedicate alla mia sposa, scappata via una sera col suo demon lover, perché (per rispondere alla domanda fatta da Manu alla fine del suo post) l’unico osso che mi manca per essere davvero felice è quello del suo mignolo quando prendeva il mio durante le nostre passeggiate per indicarmi la strada da seguire. Sull’assenza di quell’osso ci ho scritto il mio libro più bello, quello che nessuno ha mai letto.