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lunedì 23 dicembre 2024

il peso dei cieli

Sono giorni che continuo a pensare a Cognetti. L’ultima volta l’ho sentito giusto un anno fa con uno scambio di messaggi. “Un abbraccio da Chinatown” mi scriveva, citando un film molto amato da entrambi. Ho sempre pensato a Cognetti come una sorta di Hemingway, nello stile, nei gesti, persino nel modo in cui beve la grappa. Vederlo sbarbato nell’intervista televisiva me lo ha reso più fragile, quasi femminile nella delicatezza del volto. Ha ragione a dire che non ci si deve vergognare della depressione. Io mi vergogno di credermi così intelligente e non capire mai niente degli altri. Solo adesso, saputo del suo male, mi è tornato in mente uno dei suoi libri più belli, “L’Antonia” uscito nel 2021, in cui ricostruisce la vicenda di Antonia Pozzi attraverso le sue lettere e poesie. Un libro delicatissimo centrato sul mistero di questa fratellanza nata fra due milanesi a distanza di un secolo. Io lo leggevo e pensavo a Hemingway: “Va bene la montagna, va bene Milano, ma cosa c’entrano fra loro due tipi così diversi?”. Eppure la poesia – è la prima cosa che impari – non sei tu che la scegli, è lei che sceglie te. Vedere il mondo con gli occhi dei poeti quasi mai è una cosa bella, la poesia fa male a chi la scrive e scava nel dolore di chi legge, non ti salva la vita; però ti fa sentire meno solo, a un livello talmente profondo, con una tale densità, che chi non la frequenta non può capire. «La mia anima di oggi, la mia anima dell’anno passato, si sono ritrovate senz’urto e restano ancora abbracciate» scrive la Pozzi in una lettera trascritta da Cognetti nel suo libro. Io credevo ingenuamente che Cognetti avesse il merito di riportare alla ribalta l’universo della Pozzi – col suo aggrovigliamento di pace naturale sconfinata e inferno interiore, le sue notti coltivate di fiori evanescenti, i suoi cimiteri piantati di croci nere e di bimbi mai nati, le eterne illusioni d’amore. Invece, mi accorgo solo adesso, c’era un rapporto di interdipendenza fra i due, dov’era lei che dava a lui, era lui che aveva più bisogno di lei e della sua lingua più concisa, e tutto questo per interrogarla, per sapere come si stava dentro tutto quel vuoto, chiedere se c’era un modo per ritrovare l’accordo perduto fra la sua anima dell’anno passato e quella presente, condividere con lei il peso dell’urto. «E resto come un pioppo nudo / a sopportare / con scarne braccia / tutto il peso dei cieli».

venerdì 5 maggio 2023

linguaggio

A fine mese mi hanno chiesto di fare una lezione in una scuola su tre poetesse. Due me le hanno proposte loro e la terza ce l'ho messa io. Antonia Pozzi, Amelia Rosselli e Claudia Ruggeri. Loro mi hanno proposto le ultime due, io ci ho messo la Pozzi. Tutte e tre si sono tolte la vita, la Pozzi e la Ruggeri prima dei trent'anni. La Rosselli e la Ruggeri vivevano nella loro particolare lingua, con la Ruggeri che però aveva anche una fortissima attitudine performativa. La Pozzi viveva nel mondo (meglio ancora in un mondo naturale e solitario, ma sereno), la sua poesia era altrettanto perfetta nella sua maggiore semplicità perché non scavava nella propria carne ma guardava fuori, si stupiva di continuo. E ti stupisce che una ragazza le cui poesie sono scritte fra i 17 e i 26 anni abbia una tale proprietà di linguaggio, e uso il termine proprietà apposta, perché il suo vocabolario non era poi così ricco, né così ricercato, semplicemente sapeva mettere le parole giuste al posto giusto, poche semplici parole dove servivano e che danno sempre ai suoi testi questo senso di autenticità luminosa e ampia, immediata. E di modernità. Raramente i testi della Pozzi sembrano datati e anche in questo la scelta di un vocabolario essenziale ha fatto la sua parte...