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sabato 15 gennaio 2022

quello che ti meriti


Ieri ho visto Le soldatesse di Valerio Zurlini – autore di cui personalmente consiglio ogni cosa. Le soldatesse, da un libro di Ugo Pirro, è considerato un film minore e segna, per la critica, l’inizio di un periodo di declino del regista, anche se a guardarlo oggi non ci capisce perché. Forse per il tono, essendo un’opera meno d’autore e più vicina alla commedia all’italiana degli anni ’60. Ha il limite di perdersi un po’ nel finale (ma, cosa inaudita oggi, le ultime battute citano alcuni versi della Bufera di Montale); ma credo succeda per il fatto che in autori così d’atmosfera com’era lui il finale è sempre un po’ una forzatura, il film potrebbe andare avanti all’infinito nel suo divagare per paesaggi e piccoli abbozzi narrativi tutti affidati agli sguardi e al silenzio. Nel complesso è un bell’affresco di guerra, il primo in assoluto del nostro cinema a offrire una rappresentazione dell’occupazione italiana della Grecia durante la seconda guerra mondiale. Come dice Zurlini in una intervista noi italiani siamo stati bravissimi, dopo, a scaricare tutta la colpa su Mussolini e sui tedeschi, ma eravamo lì ed eravamo complici della devastazione e dello stupro. Il film, profondamente antifascista, parla di tre soldati italiani che hanno il compito di scortare per i vari presidi militari un gruppo di quindici ragazze greche costrette a prostituirsi per fame. È tutta lì la metafora della guerra, in quel camion pieno di ragazze che si vendono per una scatoletta di cibo ma non vogliono rinunciare ai loro sogni di ventenni. Come dice all’inizio il colonnello interpretato da Guido Alberti al riluttante Tomas Milian, tenente che non vuole questo incarico perché lo ritiene svilente: «Quando studiavo io, e tu non eri ancora nato, illustri professori ci insegnavano che questo paese era la culla della civiltà, e che saremmo stati dei barbari senza l’ideale di bellezza intuito dagli antenati di queste disgraziate. E quando questi professori, dal ‘21 al ‘24, sono stati bastonati, umiliati e cacciati in esilio, noi eravamo troppo deboli per muovere un dito, ed è proprio per questo che a voi invece hanno insegnato a spellarvi le mani quando un maestro somaro dice che vuole spezzare le reni a un popolo in ginocchio, che la dignità sta tra le chiappe delle vostre sorelle, e che con le puttane ci si va al buio, e non si scarrozzano in giro come esseri umani. – E allora? – E allora hai quello che ti meriti perché il mio è un ordine. E se vuoi, fammi rapporto».

sabato 8 gennaio 2022

che cos'è la solitudine

In un bel documentario del 2012 di Adolfo Conti, Gli anni delle immagini perdute, basato sui diari di Valerio Zurlini, viene denunciato lo stato di solitudine vissuto dal regista bolognese negli ultimi sei anni di vita, abbandonato dall’industria culturale così come da molti suoi colleghi (eletta schiera) e ridotto a scrivere sceneggiature per dei film mai realizzati, su cui nessun produttore voleva investire, in cui nessun attore voleva recitare. Zurlini era un autore di riconosciuto talento (La prima notte di quiete, Il deserto dei Tartari), ma veniva considerato un uomo dal carattere assai poco accomodante. Era avvinto infatti da una malinconia incurabile, e per questo venne relegato alla censura e al silenzio. Scrive Zurlini nei suoi diari che arriva un momento nella vita di un uomo in cui quest’uomo incontra il suo cupio dissolvi. In quel caso il mondo culturale che ha intorno dovrebbe farsi carico di questo dolore, stargli accanto per affiancarlo di fronte al vuoto, offrigli un appoggio, una spalla, una mano, anche solo una parola d’affetto. Ma questo non succede quasi mai, perché stare accanto a una persona affacciata sul baratro è qualcosa che richiede molto impegno, e coraggio. Ci sarà tempo, dopo, per gli elogi, per l’affetto, per sbandierare una comprovata amicizia. Intanto che ciascuno se la sbrighi da solo coi suoi demoni. Scriveva Zurlini amareggiato: “Siamo in mano a servi di servi, a mediatori avidi di mance, a politici incanagliti e ciechi, e quanti film non si sono fatti né si fanno né si faranno perché la nostra è l’arte meno libera del mondo. Mentre arte è sinonimo di libertà, di creazione, di pietà e di gioia”. In questi giorni che si è saputo della morte di Peter Bogdanovich e ieri di Vitaliano Trevisan ho pensato a lui.

martedì 23 febbraio 2021

deserto


Ieri ho visto Il deserto dei Tartari, di Valerio Zurlini. Quando ho letto il libro di Buzzati non mi era piaciuto, l'ho trovato lento ed eccessivamente sfuggente. Invece il film, che ha la mia stessa età, mi ha fatto una certa impressione, e a contribuire al suo fascino sono stati proprio i tempi lunghi, gli immensi spazi senza fine ma anche senza vita, e tutti quei silenzi irrigiditi. Forse bisognava passare attraverso un anno di lockdown per capire il senso profondo di quest'opera, oppure superare i quarant'anni nell'attesa che qualcosa succedesse, per accorgersi che non è successa e forse non succederà. Tutto ci fa credere che siamo di fronte alla fine di un'epoca e da questa fine i più vecchi verranno travolti. Io, è vero, sono ancora giovane, ma allo stesso tempo sono troppo vecchio per non sentirmi ormai in ritardo sul futuro; sto esattamente come Drogo, in attesa non di un ritorno alla normalità, che in ogni caso non avrebbe nulla da offrirmi, ma di una rivoluzione talmente violenta da sconvolgere tutto, da giustificare il mio senso di vuoto. Ma temo che, se anche verrà, non farò in tempo a vederla. Questa mattina ho letto della morte di Franco Cassano, autore grandissimo, celebre fra le altre cose per aver codificato il pensiero meridiano, quest'inno alla dignità di una filosofia di vita, di un modo di occupare il tempo e lo spazio tutto nostro. L'ho trovato quasi in linea col senso ultimo del film. C'è dignità estrema anche nella lentezza, nell'osservazione profonda, nell'attesa. La speranza è di riuscire a non farsi sopraffare dal vuoto.