Ieri
 ho visto Il deserto dei Tartari, di Valerio Zurlini. Quando ho letto il
 libro di Buzzati non mi era piaciuto, l'ho trovato lento ed 
eccessivamente sfuggente. Invece il film, che ha la mia stessa età, mi 
ha fatto una certa impressione, e a contribuire al suo fascino sono 
stati proprio i tempi lunghi, gli immensi spazi senza fine ma anche 
senza vita, e tutti quei silenzi irrigiditi. Forse bisognava passare 
attraverso un anno di lockdown per capire il senso profondo di 
quest'opera, oppure superare i quarant'anni nell'attesa che qualcosa 
succedesse, per accorgersi che non è successa e forse non succederà. 
Tutto ci fa credere che siamo di fronte alla fine di un'epoca e da 
questa fine i più vecchi verranno travolti. Io, è vero, sono ancora 
giovane, ma allo stesso tempo sono troppo vecchio per non sentirmi ormai
 in ritardo sul futuro; sto esattamente come Drogo, in attesa non di un 
ritorno alla normalità, che in ogni caso non avrebbe nulla da offrirmi, 
ma di una rivoluzione talmente violenta da sconvolgere tutto, da 
giustificare il mio senso di vuoto. Ma temo che, se anche verrà, non 
farò in tempo a vederla. Questa mattina ho letto della morte di Franco 
Cassano, autore grandissimo, celebre fra le altre cose per aver 
codificato il pensiero meridiano, quest'inno alla dignità di una 
filosofia di vita, di un modo di occupare il tempo e lo spazio tutto 
nostro. L'ho trovato quasi in linea col senso ultimo del film. C'è 
dignità estrema anche nella lentezza, nell'osservazione profonda, 
nell'attesa. La speranza è di riuscire a non farsi sopraffare dal vuoto.

 
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