Traggo queste poesie dal volume Versi, a cura di Silvana Ghiazza, pubblicato nel 2009 da WIP edizioni con il contributo della Fondazione CARICAL. Un lavoro enorme (quasi 700 pagine) che fa onore alla casa editrice, che ripercorre l’intera produzione lirica di Carlo Levi (1902-1975), più conosciuto per le sue opere in prosa e pittoriche. Quella che faccio è una scelta ampia per un blog, ma non affatto esaustiva, considerato che il primo testo dell’antologia è datato 1919 e l’ultimo 1974. La poesia, insomma, accompagna fedelmente tutta la vita del nostro, ne registra ogni movimento. La stessa sua abitudine di datare ogni singolo testo la dice lunga su quanto sia consuetudinario questo rapporto. Rapporto di grande pudore, aggiungo, visto che la stragrande maggioranza di questi testi è rimasta in gran parte inedita fino a una dozzina di anni fa. La scelta – per gusti miei personali – è ricaduta sulla seconda parte della sua produzione, escludendo la prima, più marcatamente formale e incentrata sull’uso quasi assoluto del sonetto. E anche qui, registrando una più ampia varietà di stili e temi (moltissimi, ad esempio, i componimenti di tipo satirico o morale legati all’attualità sociale e politica del Paese nel dopoguerra), si è preferito mettere l’accento su quelli a carattere più intimo, o esistenziale, o legati ai rapporti umani. Ne emergono dei bellissimi ritratti: su tutti quello di Rocco Scotellaro, che Levi definiva “fratello”, quello di Linuccia Saba, di cui Levi fu compagno per più di trent’anni e per la quale scrisse bellissime poesie d’amore, quelli di Giulio Einaudi e Giorgio Bassani, in rappresentanza del rapporto quasi sempre conflittuale che Levi ebbe col mondo editoriale italiano; ma ancora, qui esclusi, ci sono quelli bellissimi di Piero Gobetti, di Umberto Saba, di Amelia Rosselli, di Cesare Pavese o quello assai salace di Giovanni Giudici.
1
In te ritrovo
il viso antico della mia famiglia
ed il candido rosso di mia Madre
ed il mio viso. Ma ora il tuo mi è nuovo
fatto più grande e più adulto, nell’età
come di quarant’anni: il naso
affilato di Leopardi.
Non più volto alle cose, non le guardi
dietro il chiuso cancello delle ciglia.
(figlio, come aggio a fa’)
Troppe vite ad un tempo, ladre
di te, mia uva puttanella. Era
amor di somiglianza, non un caso.
(figlio, come aggio a fa’)
Altri per te guida giustizia nera.
Roma 4 gennaio 1953
2
Trasite, dice la vedova, dal vello
bianco di pecora affamata
cento volte tosata
in cerca d’erba e spini tra le pietre.
Trasite, favorite, e il Sant’Antonio
suo dalla faccia seria
porta in braccio, ravvolto
nella tela di sacco, col cordone
alla vita, che il male ed il demonio
tengon lontano. Ignote persone
t’apron fraterne le porte, le tetre
case, l’antica comune miseria.
6.12.53
3
Queste pietre, chi le getta?
Queste parole, chi le capisce?
In pace con gli dei, parola detta
è una pietra che il mondo costruisce.
24.11.55
4
L’intelligenza del cuore
e la grazia dei sensi
sanno, per forza d’amore
più di quello che pensi.
(1958)
5
I panni che tu hai stesi
in ordine d’amore
come nei nostri paesi
son le bandiere del cuore
Chiudono la cucina
nel verde, nell’ombre nere
del bosco; il ferro non stira
il loro candore,
ma lenti segnano vere
cose, le tue nostre ore –
dolci tue ore
I panni che tu hai stesi
con l’ordine del cuore
son le bianche bandiere
del paese d’amore.
16/10/58
Sul verde nell’ombre nere
del bosco, nella cucina
6
Squilla il tuo ritorno
improvviso come la stagione
che porta il verde e l’azzurro
ruggente come il leone
tenero come il burro
sul pane uscito dal forno.
(1961)
7
Oroma!
O Roma! (come romba
quel nome, di trombe
retoriche, tromboni, trombette,
fischetti della Befana
di leoni, fontane, campane
di rovine di curve barocche
di rocchi, di rocchetti
di rosari, di corone, di trofei
croci crocette crocioni
di borghi di borgate, di borghesi di romei
di rondoni sui cornicioni
di roboni, cordoni corruzioni
di aromi, di orazioni, di oremus
di rotonde e rosoni, di roche
voci e coraggio robusto,
di busti, di Romoli e Remi)
di bronzo, di portoni, di porte
Oroma, oroma, o Morte!
19.8.1960
8
Non valeva la pena
Non valeva la pena
di ammazzare tanta gente
alla Banca di Agricoltura
per niente
altro che per riportare al Governo
la spazzatura.
16.12.1969
9
DISSE BASSANI NEL SUO PARAGONE
Anche tu sei dei nostri, anche tu
sei un mediocre, un vile,
un sicario, che non sa più
uscire dal tuo-nostro cortile.
Come noi sei un avaro,
un essere senza passione
reale, anche tu un amaro
fratello della nostra generazione.
Che tu sia un altro lo contestiamo
(se no, ci faresti terrore):
sei noi, come noi, lo vogliamo
per non essere costretti all’amore
per noi mortale. Fratello
e correo, ti apriamo le porte
se accetti le nostre misure, l’orpello
letterario, la nostra interna morte.
Carlo Levi
Roma, 14 anni dopo, il 2 marzo 1964
10
FIGLIO DI RE
Nel corridoio, senza un ruga,
cashemir e pipa, Giulio
fuma (dolcissima concia).
Gli parlo affettuoso del Padre
sepolto, di Tino che porta
l’olivo (argomento concesso).
Ma perché a un tratto una porta
tacito schiude, si cela nel cesso,
non torna, scompare? È una sconcia
ritirata (Aldrovandi), una fuga,
un pasticcio, un imbroglio, un intruglio
di coscienza divisa, una svastica
rovesciata, una paura scolastica,
una censura infantile?
O mio Sire
superbo, mio bel principe, dagli occhi
azzurri, non piegare i ginocchi,
e, per tremante orgoglio, non fuggire!
Treno Torino-Roma, 12 gennaio 1966
11
[A Chungking, nel giardino dove era il Comando di Mao,
nel sentiero, l’erba del mattino, chi poteva vederla?]
nel sentiero, l’erba del mattino, chi poteva vederla?]
La poesia è degli imperatori.
Non si può essere poeta se non si ha vinto:
grande o piccolo, nel grande mondo o nel piccolo mondo
solo il vincitore possiede la parola.
(1967)
12
Gli alberi della clinica
Con macchine fabbricate
il climi d’ossigeno, inutili
gli alberi, gli antenati,
guardiamo nel giardino della Clinica
come al museo i residui futili
dei fiori, della Natura
soppressa, aspettando con cinica
virtù, la sepoltura.
7.7.69
13
È questa la vecchiezza?
Sempre meno dagli occhi
ma vengono dall’interno
da un centro che trabocchi
al di là del suo cerchio
forme e parole, specchio
dalla sola esistenza.
Se vedessi ancora il carrubo
come un carrubo
l’olivo come un olivo
(e te come una donna)
sarei giovane d’anni, forse vivo.
Ma in te vedo soltanto te
e ancora te nel carrubo e nell’olivo
un te che è un io e un altro. Un vivo, un vecchio?
23.9.71
scendendo la strada
14
Mettere in trono una contadina,
è, Giotto, inventare la verità
ma è anche salvare il cielo, il trono
in sua nuova terrestre autorità.
È cenere il trono. Il tuono
segue il fuoco del fulmine. Rovina
il trono, opera ingombra.
Resta la contadina: neppure
più contadina. Nuda, sta
come una pianta, sotto il cielo sgombro,
tronco e germoglio tra le sepolture.
17/11/72
15
(Non sono poesie, sono prove
di vista che sale e si storce:
accendete le vostre torce
per scoprire un mondo più chiaro.
Ma se qui in questa landa, dove
son solo forme serpenti
resto, rimangono spenti nell’ombra
i lumi esterni, e a me l’ombra).
O.D. 8.1.1974
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