venerdì 26 gennaio 2018

intervista su laboratori poesia


Rilke scrive: Mai d’improvviso, quasi si svegliasse, / si volta e ti fronteggia in pieno viso: / e tu allora inaspettatamente / ritrovi innanzi a te il tuo sguardo. (Gatto nero in Poesie 1907-1926 ET Poesia, 2014). Gli animali, e i gatti in particolare, hanno il potere di metterci in contatto con un nostro io più profondo?
Gli animali assolutamente sì, tanto che a parte i gatti ho avuto a che fare nella mia vita con cani, tartarughe, ricci, galline e conigli, colombacci e civette, la ghiandaia che vive sull’albero di fronte, e poi insetti vari, fino ad arrivare a ragni, lombrichi, cazzodde e limacce, e in ognuno di loro ho trovato una briciola di rivelazione.
Coi gatti poi ho una particolare complicità, tanto da convivere con cinque di loro. E poiché i gatti, un po’ come i bambini, si muovono in una sfera emotiva assai particolare, quando un mio gatto decide che è l’ora delle carezze non c’è ma che tenga, non c’è impegno di lavoro, stress, scadenza, scazzo o malumore che venga prima di quel contatto, per cui sei costretto, anche solo per pochi secondi, a staccare la spina per assecondarlo, e in quello stacco ritrovi per un attimo la tua dimensione più umana. “Restare umani” si dice sempre, non lo sono mai stato più che con un gatto.

Morire – questo a un gatto non si fa (W. Szymborska). E quando sono i nostri animali domestici a lasciarci?
In quarant’anni ho visto morire così tanti animali che per certi versi dovrei esserci abituato, eppure è la perdita di un famigliare, come si fa a darsene una ragione?
Molti animali hanno una grande dignità, quando devono morire si allontanano, spariscono, c’è questo pudore della morte che per certi versi trovo commovente e ammetto, da scrittore, che mi piacerebbe riuscire a penetrarlo, ma sono solo un uomo e ho i miei limiti. 

Raccontare l’infanzia e la vita attraverso “storie di gatti”.
Non è niente di rivoluzionario, a pensarci bene, ma è il libro a cui sto lavorando adesso e mi dà una certa gioia. Negli ultimi dieci anni ho prodotto così tanta roba che non si riesce nemmeno a trovare il tempo e lo spazio per pubblicarla tutta. Così, arrivato ai quaranta, mi sono accorto di avere già detto tutto quello che avevo da dire. Potrei ripeterla, ma perché? Così ho pensato di prendermela comoda e di lavorare al contrario, senza nessuna fretta – tanto il mondo non ha un tale bisogno delle mie poesie – lavorando per sottrazione, quindi cercando di limitarmi all’essenziale e di parlare di poche cose e non di altre, quindi fuori il mondo inteso nei suoi rapporti sociali, di potere o di pietà, fuori la politica e il sesso, che poi sono gli argomenti che in genere tratto, per ritornare a una dimensione più modesta e intima: la propria storia, gli affetti basilari – non ho una moglie, ma ho cinque gatti –, la perdita delle persone care, per cui non si può fare nulla, salvo cercare dei rimedi per lenire il dolore. E in questo, sono convinto, la poesia non può cambiare il mondo, come diceva la Cavalli, ma può lenire le ferite come nessun altro genere letterario. È una cosa piccola, forse, ma buona.

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