ANTONIO LILLO, L’INNOCENZA DEL MALE
LietoColle Editore, Faloppio, 2009, pagg. 53, poesia
Gli esordi sono un piacere da leggere, specie quando sono attesi. La prima volta che ho letto una poesia di Antonio Lillo è stata durante la scelta di poesie che porterà alla composizione del volume Il segreto delle fragole 2008, da me co-curato con Giampiero Neri. E la poesia scelta fu una vera sorpresa quanto lo scoprire che l’autore era quasi del tutto inedito.
Ora non più ed ho tra le mani L’innocenza del male, sua opera prima che in apertura si fregia di una attenta prefazione di Guido Oldani.
L’esplorazione del rapporto tra esperienza e conoscenza è probabilmente uno dei più frequentati dalla filosofia, così come lo è in poesia. Meno consueto è collegare i due fattori all’innocenza: intuitivamente l’innocenza rimanda (quasi esclusivamente) ad uno stato prelapsario (antecedente al peccato originale), ad un’infanzia incorrotta oppure alle cosiddette virtù monacali. L’innocenza è ciò che non può essere dimostrato attraverso i procedimenti della ragione discorsiva ma Lillo ribalta il senso tramite un ossimoro, l’innocenza del male appunto, e s’addentra con linguaggio diritto e dosato, con incursioni (rare) nel vernacolo (il dialetto usato è quello parlato a Locorotondo, terra dell’autore) verso il tentativo di determinare un agente morale che tramite la caratterizzazione della soggettività porti all’esperienza, là dove il soggetto morale non è solo un animale dotato di linguaggio bensì un catalizzatore di esperienza. L’errore è credere che l’esperienza sia solo un fascio di sensazioni. Accade, certo, ma in luce di una sedimentazione stratificata che porge nuovi significati e cambia i precedenti. Questa “esperienza strutturata” sa di essere una somma di eventi antecedenti (quindi non soltanto un mero catalizzatore). La coscienza che ne segue è la coscienza di un io votato al mondo dove poi inserire l’io corpo che ne è la condizione.
Lillo si contrappone però al divenire ameba immersa in un grande omogeneizzato (cito dalla prefazione di Oldani), cosi come sa che senza il mondo sociale l’individuo non sarebbe altro che una astrazione ed è qui il punto: restare (meglio ancora: essere!) nella fioritura umana (i trent’anni dell’autore) senza divenire omologazione, scoramento, ammaestramento. L’autore è consapevole dello sdoppiamento riflessivo del sé, delle ragioni che costanti portano al conflitto (anche interiore) e che è una guerra riappropriarsi di quell’io originario, spontaneo, innocente e quindi autentico.
Se da un lato è necessario subire (stratificarsi del e nel male), dall’altro resiste l’atto libero dell’attenzione (e della sorpresa) che non contrae su di un unico punto focalizzato e localizzato del tempo e dell’esperienza (come un riflesso condizionato). È qui che esiste o rinasce l’innocenza.
Apparentemente parrebbe un libro di difficile percorso: non lo è.
Pregio di Antonio Lillo è scrivere come mangia: ha letto e molto e si sente. Cita grandi poeti, anche contemporanei (un esempio immediato e diritto d’inizio volume: a pagina 12, Pagliarani) ma non li copia. Ulteriore punto a favore è la tecnica, capita e messa da parte per trovare quella spontaneità che caratterizza un dettato personale. Viene usato con sicurezza l’enjambement, l’ipermetro ma qui o là affiora una certa prosasticità che andrà limata strada facendo. Suggerisco di muovere – inoltre – con maggiore sintesi per non annacquare un dettato che evidentemente arriva da un lavoro di forgiatura. Si dia adesso il tempo di curare questo volume, portarlo avanti: lavorare intanto senza fretta per rafforzare una lingua che ha sicuramente una buona strada avanti e questo esordio in sicurezza lo conferma. Del lavoro impervio e terribilmente duro che attende chi scrive poesia, Lillo è però consapevole, tanto da porre anche a sé stesso un promemoria in epigrafe: Per me/ Povero più di prima/ che non ero pubblicato. Chapeu!
Fabiano Alborghetti
(Pubblicata su Alleo, il 03-04-2009)
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