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domenica 3 gennaio 2021

il traghettatore

Hotel Colonial, film del 1987 diretto dalla quasi esordiente Cinzia TH Torrini, rientra in quella strana categoria di opere che partono con le migliori premesse – in questo caso molte buone idee per una storia solida e piena di chiaroscuri, i paesaggi messicani meravigliosi e crudeli, la fotografia che rimanda quasi al reportage, un cast internazionale – e si risolvono in un grandioso fallimento; dove però, nonostante i difetti evidenti, resta qualcosa delle loro premesse, qualcosa di sottile e sfuggente che dà loro un fascino particolare e senza tempo. Nello specifico il film mette insieme due storie parallele: una cupissima, a metà fra il noir e il viaggio iniziatico – che ha qualcosa di Coppola, ed è esemplificato dalla frase: “Il Sudamerica è una terra immaginaria che aspetta solo di essere inventata” – in cui un uomo (John Savage) parte per il Sudamerica alla ricerca del fratello (Robert Duvall), ex terrorista che si credeva morto, ma che scopre essere un trafficante di droga e di bambini; e una, speculare, che invece rimanda alla commedia italiana di emigrazione – genere che di lì a poco avrebbe trovato il successo coi film di Salvatores – attraverso l’incontro con un piccolo traghettatore emigrato (Massimo Troisi) che vive di esperienti e cerca di ottenere un proprio personale riscatto organizzando delle partite di calcio coi bambini del luogo. In altre mani entrambe le storie sarebbero state valide, in questa versione che prova a mischiare i generi mancano di respiro, e ti lasciano con l’amaro in bocca di qualcosa che avrebbe potuto essere migliore, con un po’ meno ambizioni o forse con maggiore esperienza. In particolare la seconda traccia, le cui battute pare siano state in parte riscritte dallo stesso Troisi, se meglio sviluppata avrebbe potuto dare un film assai notevole ed originale, duro oltre che malinconico, come alla Torrini, ma anche allo stesso Troisi in altre sue pellicole, non è riuscito di fare.

venerdì 23 agosto 2019

appropriazione indebita

Uno che mi ruba una foto e la ripubblica facendola passare per sua. Lo sgamo e quello, con vera classe, si giustifica dell’appropriazione indebita citandomi Il postino di Troisi: la fotografia non è di chi la fa, ma di chi gli serve. Va bene. Ma continuo a chiedermi: se nel film la poesia rubata a Neruda serviva a farsi la Cucinotta, tu, con la foto mia, chi è che ti devi fare?