Il cammino artistico di Robert Mapplethorpe (1946-1989) è simile, sotto il profilo tecnico, a quello di molti altri giovani artisti di talento. Comincia a fare foto in maniera “naturale”, per strada, negli angoli di casa, senza quasi preoccuparsi della tecnica, attraverso l’uso di una polaroid che lo costringe a essere di continuo dentro la scena, coinvolto nella stessa e senza troppo preoccuparsi dei limiti formali che possono presentarsi. Poi passa a un assoluto controllo registico della scena, esterno alla stessa, attraverso un uso sapiente delle luci e di fondali scuri che amplificano la nudità dei soggetti, favorendo i drammatici chiaroscuri che ormai consideriamo intrinsecamente connessi al suo linguaggio.
Questo cambiamento si registrò esattamente quarant’anni fa, nel 1975, quando lo stesso Mapplethorpe passò dalla polaroid all’uso di una Hasselblad, che permettendogli una più ampia gamma di possibilità lo incentivò a modificare il proprio stile per poi passare a una nuova definizione dei suoi soggetti. Non più l’ambiente artistico bohemien dei suoi inizi ma tanti ritratti su commissione e poi i purissimi nudi d’impronta erotica e omosessuale, sulla scorta del suo nuovo interesse per il Neoclassicismo con la sua forte commistione di sensualità ed eleganza. Robert Mapplethorpe divenne in breve uno dei maggiori fotografi di studio della sua epoca.
Fra questi due momenti si inserisce il cosiddetto Portfolio X, che come tutti i lavori di transizione mischia in maniera avvincente il desiderio di sperimentazione figurativa a soluzioni spesso trasgressive sul piano narrativo, talvolta al limite del buongusto, che ancora lo vedono dentro la scena, coinvolto dalla stessa in prima persona. Sono lavori molto spregiudicati, estremi da qualsiasi punto di vista li si giudichi, e all’insegna della più assoluta libertà di linguaggio.
Fra questi due momenti si inserisce il cosiddetto Portfolio X, che come tutti i lavori di transizione mischia in maniera avvincente il desiderio di sperimentazione figurativa a soluzioni spesso trasgressive sul piano narrativo, talvolta al limite del buongusto, che ancora lo vedono dentro la scena, coinvolto dalla stessa in prima persona. Sono lavori molto spregiudicati, estremi da qualsiasi punto di vista li si giudichi, e all’insegna della più assoluta libertà di linguaggio.
Ancora oggi a rivederla la serie del Portofolio X ha un effetto urticante, anche se ineccepibile sul piano tecnico. La serie è composta da fotografie sadomaso pregne di una vena dichiaratamente pornografica/esibizionistica che solo in parte viene stemperata dall’ironia del suo autore: ironia per nulla sottile ma anzi piuttosto cruda, violenta, esibita, per avere il massimo effetto sullo spettatore. Esempio massimo è l’autoritratto in cui lo stesso Mapplethorpe si infila nell’ano il manico di una frusta.
Esposta nel 1978, la serie scatena un certo disagio persino nell’ambiente artistico più liberale, non tanto per la violenza delle immagini quanto per il ricercato e compiaciuto esibizionismo. Ci si chiede: ma è arte o pornografia questa? Se non è pornografia, quale differenza passa fra le due? E se è arte, è giusto mostrarla così liberamente al pubblico? Ed è giusto sovvenzionare, attraverso fondi pubblici, operazioni artistiche o mostre di dubbio buon gusto come questa, che sembrano più un incitamento a pratiche sessuali deviate?
Il Portfolio X con la sua dichiarata ambiguità creò uno spartiacque non solo nella produzione di Mapplethorpe, che poi continuò la sua ricerca con la serie dei Nudi maschili di uomini neri, ma in tutto l’ambiente artistico con ripercussioni nella nostra percezione del sesso esibito che si spingono fino a oggi e restano, ad oggi, irrisolte.
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