domenica 19 giugno 2016

serena di lecce su bestiario fiorito

Caro Vitantonio Lillo-Tarì de Saavedra, all'inizio facevo orecchie alle pagine che mi piacevano, per ritrovarle. A un certo punto ho dovuto smettere perché, tra tutte quelle orecchie, il ricercare in sé sarebbe stato del tutto inutile. Ora il volume è per metà strapazzato, l'altra metà è stata goduta senza appuntare, in una specie di disarmo. Ho sentito di potermi abbandonare alla tua voce con fiducia. Ho fatto bene.
Finalmente un libro - ho pensato - e finalmente un libro di poesia. In un libro non senti il bisogno di decidere cosa salvare (e cosa, di contraltare, buttare nel secchio). In un libro non vai rimestando come sulla bancarella del mercato americano, cercando l'occasione che ti calzi a pennello. Il testo che parla di te, che ti piace, in cui rispecchi te stesso e la tua povera vita. Il libro non serve a confermarti. Il libro è altro da te, il libro è tosto, il libro ti grida in testa, il libro non lo puoi mica sfilacciare, se salti la pagina di un libro ti resterà sempre il dubbio di esserti perso un passaggio importante. Contro un libro ci si scontra, e dalla collisione si producono particelle, e quelle particelle si agglutinano in modo imprevedibile, e dal quel modo imprevedibile riusciamo tutti quanti mutati pure noi.
Nel tuo libro (ed è stato per me uno schiaffo benefico) ci ho trovato tanta di quella fede nella parola e nel verso che non ho provato la nostalgia di Novecento che solitamente mi assale quando leggo cose nuove. È stato un bel viaggio, di quelli che fanno tornare la voglia di crederci. Anche per questo ti ringrazio, di cuore.

1 commento:

marian. ha detto...

Bhe, non mi pare ci sia altro da aggiungere