Per qualche strano motivo l’espressione «morte di un poeta» suona sempre un po’ più concreta che non «vita di un poeta». Sarà perché «vita» e «poeta», come vocaboli, sono quasi sinonimi nella loro nobile indeterminatezza. Mentre «morte» – anche come vocabolo – è qualcosa di ben definito, quasi quanto è definito il prodotto stesso del poeta, cioè una poesia, che ha come elemento principale il suo ultimo verso. Un’opera d’arte, quale che sia la sua sostanza, è una corsa verso il traguardo, ed è il traguardo, l’epilogo, a deciderne la forma e a negarle la risurrezione. Dopo l’ultimo verso di una poesia non c’è più posto per nulla, se non la critica letteraria. Così, quando leggiamo un poeta, partecipiamo alla sua morte o alla morte delle sue opere. […]
Un’opera d’arte vorrebbe sempre sopravvivere al suo autore. Si potrebbe dire, parafrasando il filosofo, che scrivere poesia è un modo, anch’esso, di esercitarsi a morire. Ma, a parte la pura necessità linguistica, ciò che spinge a scrivere non è tanto una preoccupazione per la caducità della propria carne quanto l’impulso a salvare certe cose del proprio mondo – della propria civiltà personale, della propria continuità non-semantica. L’arte non è un’esistenza migliore, ma è una esistenza alternativa; non è un tentativo di sfuggire alla realtà, ma il contrario, un tentativo di animarla. È uno spirito che cerca la carne ma trova parole.
[Iosif Brodskij, Il figlio della civiltà, trad. Gilberto Forti, in Fuga da Bisanzio, pag. 71-72, Adelphi 1987]
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