Chissà come lo vede la ghiandaia da lassù e se si chiede anche lei che differenza passa fra l’antenna che la regge e il pero recchia falsa che c’era tre anni fa. Risponde, con intervallo di uno a tre richiami, a un altro uccello che non so, nascosto nella siepe, dal canto metallico e monotono che pare una sirena, ed ogni cinque dell’uccello-allarme ne attacca un altro più lontano, incerto e basso, quasi sonnolento a cui il gracchiare di una gazza contrappone ipnotico un ritmo più lento da fachiro, cui si accorda sulla grattugia il movimento del cacio polverizzato per la pasta.
Tutto è, proverbialmente, perfetto. Persino il guscio secco della tartaruga in fondo all’orto di cui non si capisce cosa l’abbia uccisa, se la malattia o la fame per un lungo inverno senza freddo e senza mai letargo; oppure lo stupro ripetuto dei tre maschi che l’hanno violentata senza tregua, coi loro gemiti di gomma e le bocche spalancate nella morsa. Ora le ronzano intorno solo mosche, i maschi senza scopo non lottano nemmeno per istinto, ridotti come sono all’estinzione.
Anche il gatto sonnecchia castrato all’ombra della magnolia ammalata. Aspetta sbadigliando le frattaglie offerte dal beccaio, né si dà pena della ghiandaia planata sulla sua testa a scacazzare mentre gli fa il verso per schernirlo.
L’antenna affilata è pronta come un moschetto o un parafulmine, un ombrello bruciato, un crocefisso andato storto sul Golgota, a scaturire il lampo che spiccherà lo capo al mondo fra il vino e la scarpetta.
Il tempo si guasta oltre la siepe. Balenano sul grigio, golose nel parcheggio, le automobili impilate in via Almirante: caramelle sacrificali offerte per placare l’ira degli dei invece del dolce. La quarta della fila ha il vetro abbassato. L’allarme dell’uccello nascosto non cede, trasmette incantato, in codice binario, il pericolo che incombe.
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