«Il mondo prima o poi smetterà di girare, e si fermerà in mezzo all’universo come un asino che s’impunta e non vuole più saperne di fare lo stesso giro». Ho comprato sabato mattina e letto ieri pomeriggio, in poche ore, “Nevica e ho le prove” di Franco Arminio (Laterza), che è un libro molto bello e strano, come un fuoco d’artificio che comincia con uno scoppio fortissimo dell’io e poi si frantuma e disperde in una miriade di ritratti sempre meno precisi, sempre più abbozzati, fino a perdersi nel vuoto di un parcheggio. Un libro dove in ogni pagina lo senti che non è (forse) un capolavoro, sospeso com’è fra reportage e autofiction, ma allo stesso tempo non riesci a staccartene perché è un continuo rilanciare poesia e vita, rassegnazione, entusiasmo di chi scrive per sola forza di aggrapparsi alla scrittura, soluzioni narrative avventurose e a tratti fuori dagli schemi, una scrittura con le palle, un libro che divaga senza perdersi, che si guarda senza compiacersi, che sa guardare giù verso l’abisso con l’autoironia degli indolenti, un libro che è nuovo e che allo stesso tempo ha il sapore di qualcosa di già visto, che si porta quell’odore addosso che sai essere anche il tuo, l’odore ammuffito di certo Sud, della cicuta che ti fai crescere dentro, l’odore sottile di fifa di ogni quarantenne imbrigliato in una disperazione senza uscita. Questo sapeva fare Arminio vent’anni fa, prima di perdersi nelle poesie d’amore, che a suo modo è anche un modo per uscirne, eppure quanto era più vero ed essenziale in questo libro, un libro che senti che viene dal secolo passato, non fosse altro che ogni frase – lo sai perché lo senti nello stile – è stata scritta a mano su un quaderno, fitta nella carta e nella carne, e non sopra un telefono o un pc.
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