È difficile, parlando di Pinuccio Giannoccari, fare la dovuta sintesi. Ci sono troppi ricordi, troppe storie, troppi discorsi e a saltarne qualcuno ti sembra di perdere qualcosa di importante. Comincio dalla fine. L’ultima volta che l’ho incontrato, un paio di settimane fa, stava seduto sulla panchina sotto casa dei suoi, lì dove prima di lui si sedeva sempre suo fratello Paolo. Pinuccio era contento di stare lì, perché quella panchina era in una bella posizione – proprio di fronte al portone di casa e al locale dove la sua famiglia aveva avuto il negozio di alimentari in cui era cresciuto – ed anche molto contesa dai passanti, ma essendo stata la panchina di Paolo la sentiva un po’ più sua, per diritto di eredità. Pinuccio a suo modo mi ricordava molto Paolo, il secondo era più lunare nelle sue uscite, ma entrambi erano due battaglieri entusiasti, molto testardi, e con un senso molto alto di giustizia. In più gli piacevano le discussioni. Era un uomo garbato, Pinuccio, ma se ti mettevi a discutere con lui non te ne uscivi con poco, ci potevi perdere le ore per vedere chi la spuntava. Una sola volta ci ho litigato seriamente ed è durata più di due ore con noi due che un altro po’ ci sputavamo addosso per una cosa di cui alla fine non ci fregava nulla. Lui mi accusava di essere una capatosta e io gli rispondevo: “Nà, il bue che dice cornuto all’asino!”. Ma dopo due ore così, nemmeno cinque minuti e stavano già ridendo come prima. Pinuccio non era uno che portava rancore, rideva molto e di gusto, aveva la battuta facile. Questo di lui mi piaceva, anche se non gliel’ho mai detto. Il più delle volte lo incontravo per strada, o stava di posta sulla porta di casa sua, oppure lo trovavo più giù, mentre scendeva il corso per andare a trovare Gildo Lisi in banca. Io li sfottevo entrambi: “Ditelo che state progettando la prossima rapina!” ma il più delle volte si finiva a parlare, con toni molto accesi, di politica. Questa è un’altra cosa bella. Non lo ricordo mai da solo Pinuccio, era sempre con qualche amico: ora ho detto Gildo ma potrei dirne tantissimi altri, perché Pinuccio era soprattutto una persona che amava stare con gli altri e quando ti dedicava del tempo lo faceva con tutto se stesso. Se ti fermavi con lui non era mai per un semplice saluto, era per farsi una sana chiacchierata, per uno scambio di idee, per informarsi. Era anche un uomo dai mille interessi, dal calcio alla radio alla politica, fino alla birra: non per nulla molti ancora se lo ricordano come Pinù Beer, da quando aveva il pub. Quando lo aprì molti amici gli dissero che non era mestiere per lui quello, ma lui ci si incaponì ugualmente e a suo modo è stato un precursore. Il pubblico arrivava tardi, così io passavo prima per fargli compagnia e poi me ne andavo quando cominciava il casino. Quante sere che ci ho passato lì dentro con lui. Rideva spesso, è vero, ma era una persona onesta, molto seria, che credeva nel lavoro, nella dignità. Lo scrivo perché è vero, non sono frasi di circostanza. Aveva una forza d’animo rara. Mi ricordo quando mi disse che era malato, era contento perché se n’era accorto in tempo e poteva lottare. Non ha mai nascosto lo stato della sua malattia e non si è mai pianto addosso. Era un uomo orgoglioso. Una volta l’ho incontrato che camminava con fatica e mi sono offerto di dargli una mano. Con una battuta delle sue, per non offendermi, mi ha mandato garbatamente a fare in culo. Anche quando aveva dei momenti di sconforto, e li aveva come tutti, lui non si arrendeva facilmente. Gli altri potevano stare male e piangersi addosso, lui viveva la sua storia d’amore e decideva di sposarsi. È stato un bel matrimonio, ci ha ridato speranza. L’ultima volta che l’ho incontrato, due settimane fa sulla panchina di Paolo, aveva la voce affaticata ma ci siamo persi come tante altre volte in mille discorsi. E quando poi ci siamo salutati mi ha detto come faceva ogni volta, quasi una frase di rito: “Lilletto, Statte bùne-bùne”. Ci vediamo sul corso, Pinù.
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