Del primo libro di Rebecca Garbin, MALE MINORE (Vallecchi, 2024) credo stupisca soprattutto la misura. Sia quella precisissima di ogni verso, poesia, sezione. Sia quella della voce, chiara ma non urlata. Sia del tono generale che non ha veri picchi, né cadute: non si può dire, infatti, che ci siano dei testi meglio riusciti o più forti, e questo potrà forse dispiacere ai lettori che prediligono i “pugni allo stomaco”, ma Male minore, pur nella sua indubbia forza drammatico-espressiva, in questo senso non fa per loro, giocando come fa su registri medi (“Cucirsi la bocca stringendo i cappelli tra i denti […] e non mangiare nient’altro”), o emotivamente distaccati (“Mio nonno era un nazista. Nessuno è stato triste / quando è morto”), o come pervasi da una sorta di stupore di fronte al vuoto (“Nessuno di famiglia ha più una tomba / siamo messi negli ossari, abitiamo / dappertutto”). Invece, credo, il vero piacere di questa raccolta sta tutta nella scoperta del disegno, un po’ come quando si osservano i giardini zen. Tutto segue un’economia e una disciplina protesi alla coerenza d’insieme, dove ogni segno, frase, citazione, ha un suo peso specifico e un equilibrio accuratamente dosati. In questo Male minore è, e si vede, un’opera poematica fin dalle sue intenzioni, esplicitate dall’epigrafe introduttiva di Claudia Ruggeri, e non costruita a posteriori cercando un filo rosso autobiografico fra componimenti disseminati nel tempo. Persino le note finali sono encomiabili, a tratti commoventi nella cura con cui tratta le sue fonti (non è cosa di tutti, molti poeti anzi, sono parecchio sciatti o avari nel riconoscerle), un misto di precisione e affetto che denotano quanta dedizione abbia per la materia poetica. Il tema di fondo della raccolta è identitario, declinato in una serie di flashback o piani narrativi fortemente onirici e mortuari, ambientati in paesaggi esasperati/allucinati che personalmente – aggiungo qui una mia suggestione alle tante offerte dall’autrice – mi hanno ricordato la struttura di Pedro Páramo di Juan Rulfo (“per me la porta è sempre aperta / c’è posto in mezzo ai morti”), e in questo senso il particolare ricorso ad alcune figure immaginarie del folklore alpino (la vipera, le anguane) che fungono animisticamente da archetipo femminile, mi hanno fatto anche pensare, in alcuni passaggi (quelli non milanesi dove più si sente la presenza di De Angelis), a un lavoro simile fatto da un’altra poetessa di una generazione precedente, Anna Maria Farabbi, con una differenza di fondo che mostra come possano essere diversamente declinati dei topoi all’apparenza simili: lì dove, nella Farabbi, il ricorso a tali modelli si fa pienezza vitale, volume fisicamente tangibile, corpo, fame, addirittura eros; nella Garbin tendono a rientrare in uno spazio interiore spesso incorporeo, cavo, ma accogliente, in cui risuonano le voci dei morti, che quanto più si offre alla loro eco e tanto più diventa lontananza o addirittura assenza, e, proprio come nel Pedro Páramo, si fa di pietra.
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