giovedì 30 gennaio 2025

l'architetto mancato

Ciascuno ha la sua storia particolare di scoperta del desiderio di scrivere, alcune meno facili della mia. Ma rifacendomi a una cosa che scriveva Cristina Simoncini sul fatto che le fa strano che si possa desiderare di scrivere senza aver desiderato prima di leggere, io sono convinto – da ciò che mi ricordo della mia stessa storia – di fare ciò che faccio perché mio padre, ferroviere, da bambino mi regalava dei libri. Ho ancora uno scaffale a casa con tutti quei volumi, ma fra gli altri, il primo ad avermi turbato al punto da farmi piangere su un libro, è stato ‘Il principe felice’ di Oscar Wilde, che forse era un po’ troppo intenso per un bambino, ma mi mise una spina nel cuore, come la rosa all’usignolo, che lì si è conficcata ed è rimasta. Era già un mood poetico, senza che lo sapessi, ma mi sono innamorato della poesia – ho proprio capito che fosse – alle medie, mentre sfogliavo l’antologia di italiano durante una spiegazione di matematica che mi annoiava. La prima poesia di cui ho sentito risuonarmi dentro i versi, uno per uno, è stata ‘I fiumi’ di Ungaretti, li ho imparati a memoria senza che nessuno me lo imponesse (“ho tirato su le mie quattr’ossa”, “stamattina mi sono disteso in una tomba d’acqua”, ecc.) e quei versi scabri e poi altri ancora che ho cercato sono cresciuti come funghi, attecchendo all’albero tutto intorno alle radici. Il primo poeta che ho amato non è stato Ungaretti, ma Federico Garcìa Lorca, che ho incontrato l’anno dopo, quando un giorno ci entrò in classe la nuova insegnante di italiano – una tipa a suo modo buffa, dall’aria disordinata, sempre di corsa, con gli occhiali spessi e l’alito pesante, l’entusiasmo di chi fa ciò che le piace – ed entrando ci chiese “vi va se adesso scriviamo delle poesie?”. Io giuro mi sono sentito battere così forte il cuore, di quel tipo di smania incontenibile che può prendere alla pancia solo i ragazzini, come avere le farfalle, come una gran fame che risale e ti si annoda in gola, io volevo esserci, volevo esserci dentro, in tutta quella roba. I miei compagni volevano essere nella squadra di calcio o pallacanestro, io volevo essere lì dove si scrivevano versi come “fu Marcel ma non era francese, e non sapeva sciogliere il canto del suo abbandono”. Infatti scrissi una poesia, poi un’altra, e un’altra ancora, e le portai alla prof che mi disse: “Belle, ma si può fare di meglio. Hai mai letto 'Il maleficio della farfalla’?” perché la mia prof aveva quella cosa lì (socratica) di rilanciare ogni volta il discorso con una domanda. E di nuovo ricominciava a battermi il cuore! È stato allora che ha cominciato a battermi e da allora non ha più smesso. Lo volevo leggere sì “Il maleficio della farfalla”! Così un poco me li passava lei, un poco me li comprava mio padre spedito in libreria a ordinare libri di autori di cui non conosceva neanche il nome – mi ricordo nei primi anni del liceo un 'Tre pezzi d'occasione' di Beckett, tradotto da Fruttero e Lucentini, che pure mi influenzò parecchio –, e mai una volta che mio padre mi dicesse questo è troppo. “Questo qui, diceva sempre a mia madre orgoglioso, ci diventa architetto!”. Le cose poi, come si sa, sono andate in un’altra direzione.

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