Nel sogno tornano i giganteschi uccelli preistorici che spesso li occupano, enormi fenicotteri gialli o rosa o color arancio coi becchi lunghi ma privi d’occhi e con un ciuffo di un rosso acceso che cade loro sul becco, i colli lunghissimi, se ne stanno in fondo, nascosti dietro il volume di casa, e allungano il collo intorno alla casa, ma non sopra il tetto, come se non potessero entrare all’interno del suo perimetro, per mangiare i fiori rossi che spuntano al di fuori del giardino. I loro piccoli invece, delle dimensioni di un uomo, vanno in giro liberi e mi seguono, si avvicinano giocando e mi toccano col capo cieco il palmo della mano per una carezza o per farsi rincorrere sotto i rami penduli del finto pepe. Decido di assecondarli e mentre corro con loro mi ritrovo dentro un’auto, una piccola Cinquecento scassata, con altre quattro persone stipate che so di conoscere anche se non ne ricordo i nomi, e degli ombrelli fra le gambe, corriamo attraverso un labirinto di pietra e ci piovono addosso i corpi di numerosi suicidi che si lanciano nel vuoto. Correndo nel labirinto siamo costretti fra le sue pareti e non possiamo evitarli e per ogni corpo che ci crolla addosso assorbiamo l’urto fin dentro le ossa, io guardo impotente gli ombrelli chiedendomi se posso usarli per ripararci, ma sono incastrati fra le mie gambe e non mi sento in grado di liberarli. E per associazione penso al dolore e all’ingiustizia di quelli uccelli che non possono allungarsi entro il perimetro di casa per nutrirsi dei miei fiori dai rami più alti del giardino e a noi cinque che non possiamo uscire dal labirinto in cui siamo condannati a correre, per non subire la morte degli altri.
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