Ho conosciuto Paolo un paio di anni fa. Mi venne presentato allora da alcuni colleghi come “quello vero”, cioè un giornalista serio e non come noi che campavamo di piccola cronaca di provincia. Paolo era stato corrispondente di guerra per alcune delle maggiori testate nazionali per quasi vent’anni, poi nel ’94, in Bosnia, aveva dato di matto, detto basta a tutto quel sangue versato senza ragione e se n’era tornato in Italia. Si è preso casa a Cisternino, a 10 km da qui e si è messo in vacanza per circa dieci anni, fino a quando gli è tornata la voglia di scrivere ma tenendosi a distanza dall’orrore del campo di battaglia. Per cui alla fine ci siamo ritrovati a lavorare entrambi nel giornale di cui ora sono direttore.
Con Paolo siamo amici. Lui dice che è perché “siamo due porci”, io invece credo perché ci piace scrivere e raccontare storie. Ogni volta che puntualmente mi consegna il suo pezzo la prima cosa che mi dice è: “i miei soldi?” e la seconda “bene, io sono in vacanza fino al venti!” Due settimane fa Paolo, che vive solo e soffre di depressione, a causa dei troppi anni passati a fare il cronista di guerra, fra morti feriti paura e assassini nati, è stato ricoverato di forza in una clinica specializzata perché si temeva per la sua incolumità. Semplicemente ha dato fuori di matto e l’hanno rinchiuso. Era da un po’ che si vedeva che non stava bene, abbiamo provato a dargli una mano ma non siamo stati abbastanza bravi.
Ora è lì e ci deve rimanere per almeno altre due settimane. Né si può andare a trovarlo, senza essere suoi parenti. Non so perché ma nella mia testa mi sono fatto un’idea tutta mia di questo posto mutuata da un racconto di Carver, intitolato Da dove sto chiamando, in cui c’è questa clinica dispersa fra i monti, dove poter tagliare fuori il mondo e ricaricare le batterie, senza scocciatori o creditori intorno e ascoltando vecchie storie di Jack London che una volta è passato di lì. Roba un po’ troppo romantica per essere vera.
Ecco, ero un po’ giù per questo fatto, e per il fatto che il numero di agosto sarebbe stato il primo in due anni senza la firma di Paolo quando l’altra sera ho ricevuto una sua telefonata.
“Buonasera direttore” mi ha detto con la voce impastata, probabilmente dai farmaci. “Hai carta e penna? Oppure sei al computer?” Sono al computer, gli ho risposto. Ero seduto sul balcone, al tavolino, il cielo si stava scurendo e volevo godermi l’aria fresca mentre finivo di lavorare al giornale. “Allora prendi appunti” mi ha detto “questo va in prima pagina”. E mi ha dettato al telefono il suo pezzo, un articolo di circa duemila battute sull’anniversario della bomba su Hiroshima, dal titolo Noi non abbiamo paura della bomba, come la canzone dei Giganti. Un articolo cupo, notturno, pieno di violenza, di umanità e tristezza. Sentivo la sua voce strascicare al telefono, impallarsi per un paio di volte e poi sciogliere il nodo in gola con un nuovo flusso di parole e me la sentivo rimbalzare sottopelle, fra le ossa. Per un attimo mi è sembrato di rivivere in quei film di guerra, di cui Paolo è molto più esperto di me, in cui questo era l’unico modo per far arrivare una notizia dall’altra parte del mondo nel minor tempo possibile. Mi ha dettato il suo pezzo, poi si è raccomandato per la foto ed ha chiuso la telefonata. Una cosa incredibile.
L’ho sentito ieri sera poi, mi ha chiamato perché dice di sentirsi solo e di annoiarsi a morte. Ha dei libri con sé ma non gli va di leggere, non gli va di fare niente. Vuole solo ricaricare le batterie. Mi ha detto che stare troppo fermo non fa per lui. È un fatto genetico. Suo padre e suo nonno, anche loro erano corrispondenti di guerra. “La mia famiglia ha vissuto tutti i conflitti del secolo passato. Non siamo mai riusciti a fermarci troppo a lungo in un posto”. E come diavolo sei finito qui, gli ho chiesto? “È un bel posto questo. Mi piace. E poi, anche viaggiando, ti serve sempre una casa a cui tornare. Serve a darti un punto di vista quando scrivi.” Ascolta, c’è qualcosa che posso fare per darti una mano? “Portami 10 grammi di hashish, magari.” Paolo, non mi fanno entrare. “E allora tu fammeli portare da Sandra.” Sandra è una delle nostre redattrici, dal carattere aggressivo e piuttosto sensuale, e dalle scollature parecchio generose. Io ho riso di gusto. Come no, Paolo. Vuoi che dica a Sandra di portarti qualcos’altro a parte il fumo? “Dille di lasciare a casa la rabbia, e di portarmi un bel sorriso invece.” Sarà fatto, capo. “Mi mancate ragazzi, davvero. Voglio tornare a casa.”
Per questo, quando Paolo viene fuori di lì, anche se sarà incazzato nero perché ho messo il suo pezzo in decima e non in prima, gli ho promesso che compriamo una bottiglia di vino e festeggiamo il suo ritorno a casa, con una cena.
Con Paolo siamo amici. Lui dice che è perché “siamo due porci”, io invece credo perché ci piace scrivere e raccontare storie. Ogni volta che puntualmente mi consegna il suo pezzo la prima cosa che mi dice è: “i miei soldi?” e la seconda “bene, io sono in vacanza fino al venti!” Due settimane fa Paolo, che vive solo e soffre di depressione, a causa dei troppi anni passati a fare il cronista di guerra, fra morti feriti paura e assassini nati, è stato ricoverato di forza in una clinica specializzata perché si temeva per la sua incolumità. Semplicemente ha dato fuori di matto e l’hanno rinchiuso. Era da un po’ che si vedeva che non stava bene, abbiamo provato a dargli una mano ma non siamo stati abbastanza bravi.
Ora è lì e ci deve rimanere per almeno altre due settimane. Né si può andare a trovarlo, senza essere suoi parenti. Non so perché ma nella mia testa mi sono fatto un’idea tutta mia di questo posto mutuata da un racconto di Carver, intitolato Da dove sto chiamando, in cui c’è questa clinica dispersa fra i monti, dove poter tagliare fuori il mondo e ricaricare le batterie, senza scocciatori o creditori intorno e ascoltando vecchie storie di Jack London che una volta è passato di lì. Roba un po’ troppo romantica per essere vera.
Ecco, ero un po’ giù per questo fatto, e per il fatto che il numero di agosto sarebbe stato il primo in due anni senza la firma di Paolo quando l’altra sera ho ricevuto una sua telefonata.
“Buonasera direttore” mi ha detto con la voce impastata, probabilmente dai farmaci. “Hai carta e penna? Oppure sei al computer?” Sono al computer, gli ho risposto. Ero seduto sul balcone, al tavolino, il cielo si stava scurendo e volevo godermi l’aria fresca mentre finivo di lavorare al giornale. “Allora prendi appunti” mi ha detto “questo va in prima pagina”. E mi ha dettato al telefono il suo pezzo, un articolo di circa duemila battute sull’anniversario della bomba su Hiroshima, dal titolo Noi non abbiamo paura della bomba, come la canzone dei Giganti. Un articolo cupo, notturno, pieno di violenza, di umanità e tristezza. Sentivo la sua voce strascicare al telefono, impallarsi per un paio di volte e poi sciogliere il nodo in gola con un nuovo flusso di parole e me la sentivo rimbalzare sottopelle, fra le ossa. Per un attimo mi è sembrato di rivivere in quei film di guerra, di cui Paolo è molto più esperto di me, in cui questo era l’unico modo per far arrivare una notizia dall’altra parte del mondo nel minor tempo possibile. Mi ha dettato il suo pezzo, poi si è raccomandato per la foto ed ha chiuso la telefonata. Una cosa incredibile.
L’ho sentito ieri sera poi, mi ha chiamato perché dice di sentirsi solo e di annoiarsi a morte. Ha dei libri con sé ma non gli va di leggere, non gli va di fare niente. Vuole solo ricaricare le batterie. Mi ha detto che stare troppo fermo non fa per lui. È un fatto genetico. Suo padre e suo nonno, anche loro erano corrispondenti di guerra. “La mia famiglia ha vissuto tutti i conflitti del secolo passato. Non siamo mai riusciti a fermarci troppo a lungo in un posto”. E come diavolo sei finito qui, gli ho chiesto? “È un bel posto questo. Mi piace. E poi, anche viaggiando, ti serve sempre una casa a cui tornare. Serve a darti un punto di vista quando scrivi.” Ascolta, c’è qualcosa che posso fare per darti una mano? “Portami 10 grammi di hashish, magari.” Paolo, non mi fanno entrare. “E allora tu fammeli portare da Sandra.” Sandra è una delle nostre redattrici, dal carattere aggressivo e piuttosto sensuale, e dalle scollature parecchio generose. Io ho riso di gusto. Come no, Paolo. Vuoi che dica a Sandra di portarti qualcos’altro a parte il fumo? “Dille di lasciare a casa la rabbia, e di portarmi un bel sorriso invece.” Sarà fatto, capo. “Mi mancate ragazzi, davvero. Voglio tornare a casa.”
Per questo, quando Paolo viene fuori di lì, anche se sarà incazzato nero perché ho messo il suo pezzo in decima e non in prima, gli ho promesso che compriamo una bottiglia di vino e festeggiamo il suo ritorno a casa, con una cena.
2
Io ascoltavo Paolo e, credo ispirato dal suo discorso, ho messo nel lettore Hejira di Joni Mitchell.
Hejira è un disco importante per me. È stato ascoltandolo che ho pensato per la prima volta all’idea di opera come viaggio. Da allora, le grandi opere d’arte per me (che siano libri o dischi o film o che altro volete) devono essere prima di tutto e sempre un viaggio, non solo dell’autore. Mentre leggi o ascolti o guardi, devi sentire che ti stanno portando da qualche parte, non solo come flusso di idee ma proprio fisicamente, che ti assorbono, che così come ti danno del loro allo stesso modo si prendono qualcosa di te, che quella ruga nuova che troverai domani mattina sul tuo viso è anche il risultato del vostro toccarvi reciproco, così come le macchie d’unto delle dita sul cd o sulla copertina del libro, le pieghe agli angoli della pagina o le tracce del passaggio di biscotti sgranocchiati mentre leggi, le sottolineature a matita o i graffi sulla custodia del disco. Tante piccole cose che servono a dire che siamo vivi e che occupiamo uno spazio, oppure che lo spazio occupa noi, ci pervade. Altrimenti non vale, l’arte diventa una cosa astratta, non ha più niente a che fare con la vita. Quel tipo di arte, se c’è, non mi interessa.
Lo so, mi direte adesso, ho scoperto l’acqua calda. Ma è che certe cose oltre a pensarle le devi sentire sulla pelle, ci devi credere. E io non ci ho creduto finché non ho sentito le dita di Jaco Pastorius sollevarsi dalle casse dello stereo, gonfiarsi come una grande bolla d’aria, nera e densa per la stanza, e arrivare a toccarmi e carezzarmi la pelle da quando il basso fa la sua comparsa su Coyote, brano di apertura di Hejira fino all’ultimo assolo di Refuge of the roads, il pezzo conclusivo, e passando per la mitica Black crow. Lo stesso tocco si ripete per quasi metà dell’album, unico ma mai uguale a se stesso, se non per il calore che senti risalirti in petto e commuoverti man mano che il viaggio fra le tracce procede con le ombre della sera.
La Mitchell, parlando di Hejira, disse di aver composto tutti i pezzi on the road, in solitudine da una costa all’altra degli Stati Uniti e di averli incisi pur sapendo che mancava ancora qualcosa, che il suono che aveva in testa immaginando la musica non era ancora stato raggiunto. Capì cosa mancava solo quando ascoltò per caso Pastorius, che fino ad allora aveva suonato sempre e solo jazz, e prontamente gli chiese di sovraincidere il suo basso a quattro dei nove brani del disco. Queste sovraincisioni cambiarono per sempre il suono della Mitchell, che da lì in poi abbandonò il folk cantautorale dei primi anni per i nuovi sperimentali territori del jazz. A noi resta il diario di questo viaggio crepuscolare, fatto in giro per l’America, alla ricerca non solo di un suono ma soprattutto di nuovi stimoli e motivi, nuova libertà espressiva, di nuove strade verso il cuore per raccontarne le emozioni. Dopo Hejira, che la Mitchell ancora oggi reputa il suo lavoro più rappresentativo, nulla fu più come prima, di sicuro nulla fu più facile come un tempo.
Quanto a me, da quel primo ascolto (è già passato qualche anno) ho applicato la mia teoria, intuita fra le tracce di quel disco, a tutte le opere che mi sono capitate sottomano e non mi sono perso mai più nel distinguere fra quelle da poter considerare un viaggio nella vita e quelle che, per quanto divertenti e meritevoli, erano semplicemente una passeggiata per me, e non bisognava dare loro troppa importanza. Fiesta, Tonight’s the night, Altri libertini, Terra di nessuno, Gli spietati o I fiumi di Ungaretti ad esempio, sono stati tutti dei viaggi fantastici, importantissimi. Altre cose sono passate non lasciandomi nulla. Altre le sto ancora vivendo e spero che non finiscano mai di attraversarmi.
Da un po’ di tempo, sarà che il tempo passa e crescendo si diventa selettivi, ho cominciato ad applicare la stessa teoria alle persone. E funziona uguale, perfetta. Non me ne sono mai pentito.
Hejira è un disco importante per me. È stato ascoltandolo che ho pensato per la prima volta all’idea di opera come viaggio. Da allora, le grandi opere d’arte per me (che siano libri o dischi o film o che altro volete) devono essere prima di tutto e sempre un viaggio, non solo dell’autore. Mentre leggi o ascolti o guardi, devi sentire che ti stanno portando da qualche parte, non solo come flusso di idee ma proprio fisicamente, che ti assorbono, che così come ti danno del loro allo stesso modo si prendono qualcosa di te, che quella ruga nuova che troverai domani mattina sul tuo viso è anche il risultato del vostro toccarvi reciproco, così come le macchie d’unto delle dita sul cd o sulla copertina del libro, le pieghe agli angoli della pagina o le tracce del passaggio di biscotti sgranocchiati mentre leggi, le sottolineature a matita o i graffi sulla custodia del disco. Tante piccole cose che servono a dire che siamo vivi e che occupiamo uno spazio, oppure che lo spazio occupa noi, ci pervade. Altrimenti non vale, l’arte diventa una cosa astratta, non ha più niente a che fare con la vita. Quel tipo di arte, se c’è, non mi interessa.
Lo so, mi direte adesso, ho scoperto l’acqua calda. Ma è che certe cose oltre a pensarle le devi sentire sulla pelle, ci devi credere. E io non ci ho creduto finché non ho sentito le dita di Jaco Pastorius sollevarsi dalle casse dello stereo, gonfiarsi come una grande bolla d’aria, nera e densa per la stanza, e arrivare a toccarmi e carezzarmi la pelle da quando il basso fa la sua comparsa su Coyote, brano di apertura di Hejira fino all’ultimo assolo di Refuge of the roads, il pezzo conclusivo, e passando per la mitica Black crow. Lo stesso tocco si ripete per quasi metà dell’album, unico ma mai uguale a se stesso, se non per il calore che senti risalirti in petto e commuoverti man mano che il viaggio fra le tracce procede con le ombre della sera.
La Mitchell, parlando di Hejira, disse di aver composto tutti i pezzi on the road, in solitudine da una costa all’altra degli Stati Uniti e di averli incisi pur sapendo che mancava ancora qualcosa, che il suono che aveva in testa immaginando la musica non era ancora stato raggiunto. Capì cosa mancava solo quando ascoltò per caso Pastorius, che fino ad allora aveva suonato sempre e solo jazz, e prontamente gli chiese di sovraincidere il suo basso a quattro dei nove brani del disco. Queste sovraincisioni cambiarono per sempre il suono della Mitchell, che da lì in poi abbandonò il folk cantautorale dei primi anni per i nuovi sperimentali territori del jazz. A noi resta il diario di questo viaggio crepuscolare, fatto in giro per l’America, alla ricerca non solo di un suono ma soprattutto di nuovi stimoli e motivi, nuova libertà espressiva, di nuove strade verso il cuore per raccontarne le emozioni. Dopo Hejira, che la Mitchell ancora oggi reputa il suo lavoro più rappresentativo, nulla fu più come prima, di sicuro nulla fu più facile come un tempo.
Quanto a me, da quel primo ascolto (è già passato qualche anno) ho applicato la mia teoria, intuita fra le tracce di quel disco, a tutte le opere che mi sono capitate sottomano e non mi sono perso mai più nel distinguere fra quelle da poter considerare un viaggio nella vita e quelle che, per quanto divertenti e meritevoli, erano semplicemente una passeggiata per me, e non bisognava dare loro troppa importanza. Fiesta, Tonight’s the night, Altri libertini, Terra di nessuno, Gli spietati o I fiumi di Ungaretti ad esempio, sono stati tutti dei viaggi fantastici, importantissimi. Altre cose sono passate non lasciandomi nulla. Altre le sto ancora vivendo e spero che non finiscano mai di attraversarmi.
Da un po’ di tempo, sarà che il tempo passa e crescendo si diventa selettivi, ho cominciato ad applicare la stessa teoria alle persone. E funziona uguale, perfetta. Non me ne sono mai pentito.
In cerca d’amore e musica
la mia intera vita è stata
Illuminazione
Corruzione
e tuffarsi, tuffarsi, tuffarsi, tuffarsi
tuffarsi giù a prendere ogni cosa che splende
proprio come fa un corvo nero che vola
nel cielo azzurro.
5 commenti:
come si può attraversare la guerra senza esserne attraversati e devastati anche se quel passaggio ti è stato assegnato per patrimonio genetico?
il posto dove Paolo sta ricaricandosi le pile non è confortevole perchè troppi viaggi tormentati vi si compiono, perchè troppe rughe dell'anima si accavallano, perchè ogni viaggio è dissonante con la persona che lo sta compiendo e con con coloro che i loro troppo veloci o troppo lenti cammini percorrono nello stesso momento e nello stesso luogo.
Sono felice che Paolo ci sia anche in questo numero del vostro giornale chè ogni viaggio richiede i giusti compagni ed il giornale è sicuramente un vostro viaggio.
Grazie per questi brani, il primo pezzo non potrebbe rappresentare meglio la musica on the road.
poi una piccola nota a margine stupida/medica aspettalo Paolo e portatelo a cena e (ri)trovatevi, ma la bottiglia di vino rimandala ad un'altra cena tra qualche mese quando il peso dei farmaci sarà minore insieme a quello dell'anima
vi abbraccio
ok. seguirò il consiglio ;)
"dice di sentirsi solo e di annoiarsi a morte"… credo che questa sia la frase che ricorderò per sempre! la associo a un mio amico che era andato soldato e volontario in due o tre conflitti in giro per il mondo e aveva terminato una volta il discorso dicendo: "si riesce a scherzare più di quanto non vorrei!". Ecco due persone, due frasi! oh, sapevo che è una gran bella persona, anche se un porco, so più di lui, ora! Buon ritorno P.F.
Che voglia di passare una serata con te e paolo!
questo post fa venire voglia proprio di quelle opere d'arte-persone che ti lasciano qualcosa!
Ti abbraccio lillo, e ti ammiro per come senti le cose, sei sempre meraviglioso!
piango
Posta un commento