mercoledì 23 gennaio 2013

viaggio fino al termine della notte

Era, se non felice, almeno troppo occupato per essere infelice. 
(Walter Tevis)
 
1. Da Marte alla Terra 

Tutto comincia nel 1963, quando uno scrittore americano di nome Walter Tevis, tanto insicuro del suo talento quanto famoso per la riduzione cinematografica del suo primo romanzo, Lo spaccone (1959), riversa tutte le sue angosce di alcolista in un romanzo all’apparenza di fantascienza, ma che in realtà ha radici profonde in un’adolescenza funestata dalla malattia, dall’incomprensione famigliare e dalla solitudine. Il romanzo si intitola L’uomo che cadde sulla terra ed è il suo ultimo grande successo prima di prendersi una pausa di quasi vent’anni, senza più scrivere. 
Il libro narra le vicende di Newton, un alieno venuto in missione sulla Terra per salvare i pochi superstiti della sua razza, decimata dalle guerre nucleari. Newton trova il modo di diventare abbastanza ricco e potente da costruire un immenso razzo con cui andare a recuperarli, ma solo, circondato da nemici, amareggiato dal carico di responsabilità che si porta sulle spalle, prima comincia a bere, poi si tradisce: viene scoperto e catturato dalla CIA, che lo sottopone per mesi a una serie di feroci e disumani esami di laboratorio, che lo rendono cieco. Liberato, senza essere riuscito a portare a termine la sua missione, finisce per passare il resto dei suoi giorni in un bar, ormai alcolizzato, e sperando che la sua famiglia riesca a captare il suo ultimo messaggio, attraverso una canzone trasmessa dalle radio terrestri. 
Il romanzo di Tevis rivisita il mito di Icaro, che cade in volo e affoga in mare. Newton, che non per nulla prende il nome dallo scienziato che ha formulato la legge di gravità, annega invece in un bicchiere di gin. Il libro è pervaso da un assoluto pessimismo, in cui non ci sono più speranze né per l’umanità nel suo insieme, né per il destino del singolo che contro quell’umanità si batte. 

2. Dalla Terra a Marte 

Agli inizi del 1975, mentre Tevis sta decidendo di smettere di bere e tornare a scrivere, il regista inglese Nicolas Roeg decide di fare un film di questo libro. Roeg è un ex direttore della fotografia (sua ad esempio quella di Fahrenheit 451 di Truffaut), che a quarant’anni ha realizzato il suo grande sogno di girare dei film in proprio: firma così alcune buone pellicole, incentrate sul confronto violento fra individuo e società (Sadismo, del 1970) o sullo spaesamento e sul conseguente senso di alienazione di un individuo inserito in un contesto non suo (il bellissimo L’inizio del cammino del 1971), prima di indirizzare la sua attenzione verso questa storia che concentra in sé molti dei temi più cari alla sua poetica. 
Quello che Roeg fa del racconto disperato e crudele di Tevis è un film tanto gelido nella narrazione come nella fotografia, quanto fumoso, inquietante, malinconico e volutamente pieno di interrogativi irrisolti, tipici del suo stile cinematografico. 
La lavorazione del film comincia a metà del 1975, e come protagonista assoluto, nel ruolo di Newton, viene ingaggiato, alla sua prima esperienza come attore, David Bowie.
La scelta di Bowie pare più che naturale, considerato che l’artista ha da poco terminato un album e un tour di enorme successo, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spider from Mars (1973), in cui metteva in scena la tragedia di un marziano sceso sulla Terra per salvare il mondo con la sua musica e distrutto dall’impatto con lo star system. Bowie è abbastanza famoso, insomma, da garantire al film il massimo impatto pubblicitario.


3. Di Stazione in Stazione

Eppure, durante le riprese, effettuate in Messico, succede qualcosa che nessuno, nemmeno Roeg, poteva aspettarsi: Bowie, che all’epoca vanta una magnifica (e molto aliena) capigliatura arancione, viene irretito a tal punto dalla storia, da vivere un vero e proprio processo di autoidentificazione con Newton. Anche Bowie, infatti, vive un momento di “disgrazia” creativa dopo il volo di Ziggy, e da due anni si è volontariamente esiliato negli Stati Uniti, fra New York e Los Angeles, inseguendo i propri fantasmi rock. Anche Bowie è depresso, squilibrato e dipendente non dall’alcol ma dalla cocaina, che lo sta letteralmente divorando: in quel periodo assume 10 grammi di cocaina al giorno e pesa circa 40 chili. La sua interpretazione è talmente naturale da ricevere numerosi encomi, e il film in breve diventa un piccolo cult per i suoi fan, ma la verità è che Bowie non recita affatto, è semplicemente se stesso.
La realizzazione della pellicola gli dà, però, la possibilità di una violenta scossa interiore, di una feroce autoanalisi da cui scaturirà un album, scritto durante le riprese e registrato subito dopo, fra i suoi più belli e difficili: Station to Station (1976), in cui già si possono notare le prime influenze della nascente scena rock tedesca, il cosiddetto krautrock (rappresentato da gruppi come Neu, Can, Kraftwerk, Tangerine Dream) e un nuovo tipo di scrittura dei testi, per certi versi più tagliente e al contempo più criptico, proprio come quello del film appena interpretato, e dal quale viene estratto un fotogramma come copertina del disco.
Con quest’opera Bowie smette una volta per tutte i panni dell’alieno e inventa per sé un nuovo personaggio in linea con la sua nuova scrittura, il Duca Bianco.


Oltre a quelli di Station to Station, in questo periodo Bowie compone anche una serie di brani strumentali, anch’essi profondamente influenzati dal krautrock. Li compone espressamente per la colonna sonora del film, che a questo punto sente probabilmente come totale espressione di sé e vorrebbe permeare ancora di più con la sua presenza.
Il suo lavoro però viene rifiutato da Roeg, che lo ritiene troppo sperimentale. Bowie ne resta amareggiato, ma finisce diligentemente di lavorare alla pellicola. Poi, una volta terminato l’album, decide che è ora, finalmente, di tornare in Europa, a rimettere ordine nella sua vita.

4. Dall’America all’Europa 

Nel suo ritorno “a casa” Bowie non è solo. Oltre al suo gruppo e al fido produttore Tony Visconti, decide di portarsi dietro un curioso compagno di viaggio, Iggy Pop, anch’egli alla ricerca di una seconda chance, dopo lo scioglimento del suo gruppo, gli Stooges, nel 1974, e il conseguente ricovero per disintossicarsi.
Bowie è un ammiratore della prima ora di Iggy, che nei tardi anni ’60 aveva incendiato i palchi americani col suo proto punk così fisico e oltraggioso, tanto da avergli dedicato una sua canzone, Panic in Detroit, e poi averlo aiutato a produrre il suo ultimo disco di successo, Raw Power (1973). Nonostante ciò, non era riuscito a risollevarne la carriera, per l’assoluta dipendenza di Iggy dalla droga, e ora che l’altro si è disintossicato, se lo trascina dietro aspettando l’occasione buona per un rilancio in grande stile.
I due si trasferiscono a Parigi nella seconda metà del 1976. Bowie ha intenzione di registrare un nuovo disco, nuovo anche nella forma, assolutamente sperimentale rispetto a tutto quello che ha fatto finora.
Decide pertanto di riprendere in mano il materiale scritto per la colonna sonora del film di Roeg (che finirà sul secondo lato dell’album e avrà il suo climax nell’inquietante Subterraneans) e di aggiungervi (sul primo lato) una manciata di nuove canzoni, fortemente confessionali dietro il linguaggio apparentemente nonsense: Bowie tenta il suicidio schiantandosi con la macchina in un parcheggio e scrive Always crashing in the same car; lascia sua moglie dopo un travagliato matrimonio e scrive Be my Wife. Nonostante cocaina e paranoia siano sempre incombenti, la sua creatività è iperstimolata dal nuovo ambiente.


Alla fase di composizione partecipa anche Iggy Pop, che nello stesso momento sta realizzando, a quattro mani con Bowie, anche il “suo” disco, The idiot. “Suo” è fra virgolette perché, a conti fatti, l’ingerenza di Bowie è tale che in molti casi Iggy è ridotto a semplice interprete vocale, e nondimeno The Idiot, col suo suono glaciale, notturno e stralunato, che anticipa molta new wave attraverso pezzi fondamentali come Nightclubbing, China Girl o l’autobiografica Dum Dum Boys, resta l’album più famoso e importante della sua discografia, e si pone allo stesso livello qualitativo di quella che poi verrà definita trilogia berlinese di Bowie, importanza sancita dal fatto che suonerà sul piatto di Ian Curtis il giorno in cui quest’ultimo si toglierà la vita.

5. Da Parigi a Berlino


Come ultimo tassello per ottenere il suono che ha in mente, tenebroso ma fortemente introspettivo, moderno eppure desertico, Bowie chiama a supportare le registrazioni Brian Eno, che in Inghilterra, dopo la sbornia glam coi Roxy Music, sta facendo grandi cose da solista, ma ancora di più come produttore e come teorizzatore di un nuovo stile chiamato ambient, attraverso album per l’epoca futuristici come (No Pussyfooting) e Evening Star, in coppia con l’ex King Crimson Robert Fripp e il bellissimo Discreet Music, firmato Eno, vero manifesto del suo mondo sonoro: musica tenue, impalpabile, la cui volontà dichiarata è quella di fondersi con l’ambiente senza disturbare, ma alterandone la percezione, una perfetta colonna sonora per il quotidiano.
Eno, come produttore e musicista, non è meno originale di Bowie. Arriva a Parigi portandosi dietro dei metodi di stampo quasi alchemico, apportando delle modifiche ai brani su “suggerimento” di un mazzo di carte ideate da lui, che assomigliano molto a quelle dei tarocchi e definite 124 Carte delle Strategie Oblique. Bowie è subito entusiasta della cosa, i suoi musicisti un po’ meno, anche se si sottopongono ai metodi di Eno. Il suo contributo più evidente è avvertibile nel brano di apertura del secondo lato, Warszawa, scritto a quattro mani con Bowie, e che rimanda nell’impalpabile arrangiamento al suo lavoro da solista, nella sua sconsolata drammaticità allo spirito del Duca Bianco.
Il disco, così come The Idiot, comincia a essere registrato a Parigi alla fine del 1976. Poi il gruppo decide di trasferirsi a Berlino ovest, dove termina il lavoro, che viene pubblicato all’inizio del 1977.


Low, l’opera che ne viene fuori, con in copertina ancora un fotogramma tratto dal film di Roeg (a cui verrà mandata una copia omaggio da Bowie stesso), è da molti considerato un disco cardine della storia del rock, e da alcuni la chiave di volta della discografia bowiana. È talmente importante per l’artista stesso, che farà in modo di ritardare l’uscita di The Idiot, terminato prima, per metterne maggiormente in evidenza la portata.
Il titolo dell’album rimanda al periodo di depressione vissuto in quel momento da Bowie. Berlino, ne è convinto, servirà a ridargli nuovo entusiasmo. In realtà, ma questo verrà scoperto molto dopo, uno dei motivi per cui Bowie decide di trasferirsi lì, è che sta subendo la fascinazione decadente (sotto il profilo puramente estetico) della cultura nazista. Nulla di più lontano, insomma, dalla gioia di vivere. Nonostante ciò, i ricordi dei due anni in cui si fermerà a Berlino sono felici, e Bowie descriverà in seguito quel periodo come uno dei più sereni della sua vita. Persino la droga diventa meno necessaria.

È il 1977, sono appena usciti, fra grandi polemiche ed entusiasmi, Low e The Idiot.
Quasi Bowie fosse un pifferaio magico, a Berlino stavolta lo segue, oltre al gruppo, a Visconti e a Iggy Pop, anche Brian Eno, che a sua volta invita Robert Fripp, alla ricerca di un nuovo indirizzo musicale dopo la seminale collaborazione con Eno.
Bowie affitta un grande appartamento al n° 155 di Hauptstrasse, nel distretto di Schoneburg. Di giorno va in giro per la città come un qualsiasi turista, scrive, dipinge, frequenta musei e mostre d’arte. Ogni sera si reca agli Studi Hansa, che si affacciano sul Muro di Berlino, per lavorare alla sua musica.
In quell’anno fatidico che gli storici ricorderanno perché c’è nato il sottoscritto, quel gruppo di scalmanati trentacinquenni realizzano in quella città che è il centro d’Europa, alcuni dei loro capolavori.

6. Da Berlino a Marte


A Berlino, Brian Eno si innamora anche lui del krautrock, fino al punto di collaborare con uno dei gruppi storici del genere, i Cluster (Moebius e Roedelius), con cui realizza due dischi splendidi: Eno & Cluster e poi After Heat, fra i più belli della loro produzione.
Affascinato dal loro suono lirico ed elettronico insieme, chiama il duo per realizzare, insieme ad altri amici illustri (Phil Collins, Phil Manzanera, Robert Fripp) il suo ultimo album rock prima di dedicarsi completamente all’ambient. Before and After Science, che di ambient è pregno (sulla seconda metà del disco, un po’ alla maniera di Bowie), è anche l’ultimo in cui Eno canterà per molti anni da allora, con pezzi che oscillano dai feroci assalti di Backwater e King’s Lead Hat, omaggio quest’ultimo ai Talking Heads con cui collaborerà di lì a poco, ai sognanti e melanconici paesaggi sonori di Spider and I e dell’assai più famosa By this River.


David Bowie, coadiuvato da Eno e dalla chitarra epica e graffiante di Fripp, scrive il suo massimo tributo alla città che lo ha accolto, e con “Heroes” realizza quello che molti ritengono il suo apice artistico. In realtà ricicla in tutto e per tutto la formula del precedente Low: una metà dei brani sono strumentali, l’altra metà cantati. Quello che cambia semmai è lo spirito dell’opera, la maggiore apertura alla speranza o perlomeno a un romanticismo che possa essere di conforto alla solitudine, all’alienazione e alla follia del mondo.
Con “Heroes” si chiude il periodo berlinese di Bowie: il successivo Lodger (1980), sempre con Eno, per quanto accomunato a Low e a “Heroes” in una ipotetica trilogia, non ha nulla a che vedere coi due precedenti, né nello spirito né nella forma.
Su tutti i brani dell’album spicca, ovviamente, quello che gli dà il titolo: Bowie dirà poi di averlo scritto osservando dalla finestra degli studi Hansa due amanti clandestini che si incontravano di notte vicino al Muro, approfittando del buio che li nascondeva dalla torrette di guardia. Si scoprì poi che i due amanti erano Tony Visconti e la cantante tedesca Antonia Maass. Per certi versi l’immaginario di questa canzone rimanda a Berlin (1973) di Lou Reed, ma a differenza dell’elegia spietata e malinconica di Reed, quello di Bowie è in tutto e per tutto un inno, e così lo concepiscono lui e Eno: l’inno di ogni amore ostacolato dalla storia e dagli uomini, a non arrendersi mai.


Iggy Pop, infine, deciso una volta per tutte ad affrancarsi dall’influenza Bowie, a cui allo stesso tempo tutto deve, incide un disco, Lust for Life, in cui Bowie suona ma non mette becco. È un album molto più solare e rock del precedente, e può intendersi come l’altra metà del suo cielo, pieno di ritmo, energia e di gioia di vivere. Per la copertina Iggy sceglie un bel primo piano in cui sorride fiducioso al suo pubblico: come dichiarazione di intenti non può essere più lontana dall’omaggio colto alla pittura espressionista di Erich Heckel, che invece caratterizza la copertina di The Idiot, ancora una volta suggerita da Bowie, che alle suggestioni dello stesso pittore si ispira per quella del suo “Heroes”. Una rete sottile ma fitta, come si vede, si stende fra tutti questi album.
Una volta lasciato Bowie, la carriera di Iggy Pop non decollerà mai più agli stessi livelli, eppure proprio in questo disco, più che nel precedente o in quelli del suo Pigmalione, è contenuto forse il pezzo più celebre e rappresentativo di quegli anni di vagabondaggio fra Stati Uniti ed Europa, The Passenger (il cui potentissimo riff è stato scritto non da Pop né da Bowie, ma da Ricky Gardiner, chitarrista di quest’ultimo). Il testo, invece, è di Iggy Pop, e rimane a tutt’oggi la perfetta sintesi di quel viaggio senza fine, alla ricerca di se stessi e di un proprio impossibile, ma non per questo meno necessario, posto nel mondo.


Oh, il passeggero 
Come, come viaggia 
Oh, il passeggero 
Viaggia e viaggia 
Guarda attraverso il suo finestrino 
Cosa vede? 
Vede il cielo segnato e vuoto 
Vede le stelle che spuntano stanotte 
Vede i bassifondi squarciati della città 
Vede il lungomare tortuoso dell’oceano 
E tutto quanto è stato creato per me e per te 
Tutto quanto è stato creato per me e per te 
Perché appartiene a me e a te 
Perciò facciamoci un giro e vediamo cosa è mio

13 commenti:

sergio pasquandrea ha detto...

"From station to station
Back to Dusseldorf City
Meet Iggy Pop and David Bowie
Trans-Europe Express
Trans-Europe Express..."

sergio pasquandrea ha detto...

(comunque, a parte tutto, musica o non musica, Bowie è sempre stato - e continua ad essere - un figo pazzesco)

Anonimo ha detto...

Mamma mia che meraviglia!
Grazie, grazie, grazie!!!
Smack! :-D

Sergio: concordo al 100%, fighissimo.
Se tornasse in tour dopo l' album di marzo, non me lo lascerei sfuggire, stavolta...

Francesca

Cirano ha detto...

post monumentale grazie!!!

lillo ha detto...

era una vita che non ne scrivevo più così. oggi mi è presa la voglia. spero di non aver fatto troppi errori. nel caso lo correggo domani, oggi non ho più la forza :D

Marco Bertoli ha detto...

Enciclopedico!

La cosa che più mi è piaciuta (l'unica, diciamola tutta, che mi sono trovato in grado di seguire) è il ricordo di Nicolas Roeg, un sottovalutato, e soprattutto del suo capolavoro Walkabout.

amanda ha detto...

Post fantastico Lilluzzo lasciatelo dire da una che, avendo una sorella 6 anni più grande, è cresciuta con i vinili del Duca e faceva sogni inquieti a causa dei poster in camera

giardigno65 ha detto...

ground control to major Lillo ...

Anonimo ha detto...

Regalino :-)

http://youtu.be/THbYFOsl-LM


Francesca

lillo ha detto...

stamattina sono riuscito a rileggerlo e a correggere tutti gli errori (spero). scusatemi per quelli, e grazie per i complimenti :)

lillo ha detto...

fra, grazie del regalo :)

Alle ha detto...

Ah però che bel ripasso! E che anni, si stava a fare la storia.
Rimasi impressionata ad un live set di Iggy Pop, ma ero solo una sbarbatella poco avezza a certi modi sguaiti :)
Di Brian Eno apprezzo molto anche il suo forte lavoro di produttore, tra gli altri U2 ( unforgettable fire e joshua tree) e Peter Gabriel (us). Ma il Duca è il Duca, sono curiosa di risentirlo in età matura.
E bravo Lillo! Un seguito sarebbe assai gradito.......tanto per continuare a ripassare :)

lillo ha detto...

eh, appena mi torna la voglia lo faccio di sicuro. questo è un post che mi portavo dentro da un sacco di tempo ma ho scritto solo ieri, d'impulso. sono contento che sia piaciuto, anche se devo dire che il bowie degli anni 80 lo conosco poco...