lunedì 11 febbraio 2019

addio fantasmi


So che il gioco degli accostamenti facili, quando si parla di un libro-libro come Addio Fantasmi di Nadia Terranova (Einaudi Stile Libero, 2018), è sempre dietro l’angolo. Soprattutto quando l’autrice ha, alle sue spalle, una terra ricca di scrittori com’è la Sicilia, quella di Vittorini della Conversazione così come quella di Pirandello del Mattia Pascal, che qui viene richiamato alla memora con un ribaltamento sostanziale. Lì dove lui si chiedeva: cosa succede quando un uomo decide di venire meno alla propria vita insoddisfacente, qui l’autrice si chiede: cosa succede a chi rimane e resta in balia della sua presenza priva di un corpo da seppellire?
E Laquidara, in tal senso, mi sembra un cognome tanto appropriato quanto pirandelliano da attribuire a questa famiglia, le cui esistenze liquide, racchiuse in una casa i cui segnali – dall’acqua sporca che preme nei termosifoni fino alle perdite del tetto, i cui lavori di riparazione richiamano in Sicilia la protagonista, fuggita anni prima attraverso lo Stretto – rimandano continuamente a una dimensione sommersa.
Intorno a quella domanda, cosa succede a chi rimane?, si muove il nucleo narrativo di un romanzo la cui trama è stringatissima, priva di veri colpi di scena e tutta costruita per quadri e movimenti lievi. La levità è importantissima nell’andamento del romanzo, permeato da un senso di accettazione del dolore, che rifiuta volutamente il registro tragico, pur nell’irrisolta elaborazione del lutto (“incompiuta tristezza”).
Ecco, se c’è un libro a cui avvicinerei questo di Nadia Terranova è Le otto montagne di Paolo Cognetti. Per la stessa trama ridotta all’osso; in cui il paesaggio (lì le alpi, qui il mare siciliano) assume il ruolo fondamentale di coprotagonista; per il tempo lento che dispiega la narrazione, un tempo che ti chiede (con gentilezza) di adeguarti a lui e non il contrario; per la scrittura nitida, solida, colta senza sembrare erudita, spesso basata su chiaroscuri emotivi, una scrittura cordiale, che ti accoglie, ti abbraccia, pur senza consolare. Pochi personaggi imprigionati nei propri vizi, nei propri piccoli egoismi, nei propri rapporti irrisolti a causa dei traumi subiti, si incontrano, si parlano, né risolvono mai del tutto i loro problemi.
In entrambi i libri c’è la figura di un padre scomparso con cui si deve fare i conti, un padre non capito fino in fondo, un padre che è la metafora (causa e proiezione) di qualcosa di irrisolto nella loro maturità. In tutti e due c’è la necessità di ricostruire, senza successo, una casa che ha delle falle evidenti. Vi è dunque, in entrambi, mi pare, una vena fortemente pavesiana che si estrinseca soprattutto nei loro finali, in cui il lutto personale assume una portata esistenziale, dove si comprende come quello dei morti è un mondo più forte, offre una casa più accogliente, ma proprio per questo fare i conti con loro diventa un atto di rivolta necessaria, esprime una volontà di riappropriazione della propria storia che è il primo passo per diventare adulti.
In entrambi i romanzi, infine, questa rivelazione si dispiega attraverso un rapporto d’amicizia (e non d’amore): Bruno, per Cognetti e Nikos, per Terranova, non sono spalle ma figure riflesse che hanno affrontato gli stessi paesaggi perturbati, senza però fuggirne, lasciandosene permeare (avvelenare) lentamente e che per questo sembrano, all’apparenza, più forti nella loro immunità.
Proprio in tal senso, a mio avviso, l’unico difetto riscontrabile nel libro di Nadia Terranova, sta nel fatto di aver dato meno spazio di quello che avrebbe potuto a una figura bella come quella di Nikos, che viene un po’ appiattita nella prima parte (anche se in linea con la psicologia egoistica della protagonista), facendoci desiderare di averne avuto un po’ di più. Nikos, che simboleggia la controparte più concreta, rassegnata ma anche semplicemente “umana” della protagonista, la sua immagine speculare e per questo caratterizzata da una cicatrice sul volto, traccia evidente di una ferita insanabile, mi ha fatto pensare – forse perché suggestionato dalle sue origini greche – a una bellissima poesia di Vittorio Sereni, da Diario d’Algeria, che condivido qui, come omaggio:

Dimitrios

Alla tenda s’accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d’uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d’infanzia.

È già lontano,
arguto mulinello
che s’annulla nell’afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.

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