Ho appena finito il libro di Trevi, un libro talmente profondo e trasversale, “assoluto”, che, se avessi avuto lo stesso talento, profondità e pazienza, avrei voluto scriverlo io. Siccome non li ho, sono contento di averlo visto prendere forma nel lavoro di Trevi, liberandomi così di fatto dal senso di colpa di non aver saputo scrivere il libro “assoluto” che mi sognavo. Ora, se anche ne fossi capace, a che servirebbe? Lo ha già scritto lui. Meglio, quindi, dedicarsi a progetti più leggeri. Fra i tanti meriti dell’opera di Trevi, l’averci ricordato un periodo non troppo lontano in cui c’era un pubblico, non necessariamente colto, che riempiva i cinema durante le proiezioni dei film di Tarkovskij, che leggeva i libri di critica letteraria di Garboli, perché credeva che lo sforzo necessario a comprendere opere anche difficili sarebbe stato ripagato da una rivelazione, da un nuovo punto di vista e di comprensione della loro realtà. Altri tempi, ovviamente, prima di arrendersi all’idea che di sforzarsi di capire il mondo non vale la pena. A tal proposito, ancora Trevi ci ricorda – dopo Senza verso e Qualcosa di scritto – la centralità dell’esperienza poetica nel panorama culturale italiano, non tanto per la capacità della poesia di farsi leggere – ché gli unici poeti che vendono, in Italia, sono quelli di cui si parla nei libri dei romanzieri, vedi Trevi stesso, vedi Bolaño dei Detective selvaggi e Limonov di Carrère – ma come approccio necessario a una diversa percezione della realtà.
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