Anche Gadda, scopro, come tanti, sostiene la necessità per uno scrittore di viaggiare. Non tanto per fare esperienze, che è un po’ la nostra visione ereditata da tanta letteratura americana. Quanto piuttosto perché viaggiando di continuo si riesce più facilmente a distaccarsi dalle cose, a lasciarsele alle spalle, perché ce ne resti soltanto la memoria. Perché solo attraverso la memoria si può scrivere bene di qualcosa, e non a caldo, in balia dei sentimenti. In questo modo la scrittura diventa quasi una forma di tortura, un lungo esercizio di presenza in assenza, dei propri fantasmi, dell’artista a se stesso e al proprio cuore, e tanto più forte è la presenza, e quindi l’opera che ne scaturisce, quanto più lunga è la distanza, e quindi lo sforzo di memoria che facciamo per colmare quel vuoto.
3 commenti:
bella riflessione
memoria come sforzo teso a colmare vuoti... anche se nel concetto di distanza a cui fai riferimento non so se vedi più distacco o attaccamento a quell'esperienza vissuta.
Ho ragionato molto sul ricordo e del suo rapporto con la messa per iscritto: sicuramente concordo sul fatto che l'animo abbia da assimilare un'emozione prima di poterla tradurre in arte, perché l'arte si compone anche (soprattutto) del razionale, anche (soprattutto) di tecnica.
E' pur vero, però, che mi pare spesso di mortificare un'esperienza provando a riprenderne il ricordo via via più sbiadito; e non perché non sappia renderlo fruibile, ma perché mi viene la necessità di riempire con buon arte i vuoti di memoria e sensazione.
Non so, io sono troppo egocentrico per scrivere di una storia non mia, o non avvertita più come tale, tanto che preferirei produrre cose orribili, ancor corrotte dall'emozione, piuttosto che riportare eventi già morti nel cuore.
A questo punto, la mia soluzione è scrivere ancora che si sia scossi dagli eventi per poi ordinare quanto si è prodotto a distanza di giorni.
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