«Mi dà troppa tristezza la poesia
né voglio più esserne informata.
Io vivo in un mondo senza tempo
negli anni che più non sono i miei».
Si stava all’ombra in afa
della sua fresca vedovanza.
Amava un giornalista – l’ombra incancrenita
di una attualità senza più vita
e ormai passato in RAI, cane
al guinzaglio. Lei acerba e folle, non arresa
ma un po’ stanca. Io già autunnale
e un po’ ammattito per amore
le citavo versi di Sandro Penna ché tutto
le mostrassero di sé, del cuore
come se in partenza noi fossimo
già scritti, e per questo sollevati dal dolore.
«Non consola» ripeteva «non consola»
senz’alcuna gratitudine. E mi pigliava,
da dentro, come un fuoco di Sant’Antonio
per tutti i Sandro Penna andati in bianco.
«Ma non ti basta sapere che ti amo, adesso ora
né più ti lascio sola! Che altra attualità
ti serve, quale uomo? C’è chi si spulcia
l’ANSA la mattina. Io nutro poesia!»
«Amavo la poesia. Mi piace anche il tuo naso.
Mi ricorda il naso altro di un uomo
ch’è ormai andato senza un verso, uno starnuto.
Andato lui, il suo fiuto, andata pure
via da me, dei nostri giorni, la poesia
squallida e incolore che la smetta
di parlare al cuore inutile
e lo morda finalmente il culo del padrone!»
Lo diceva – rimpiangendo senz’amore
il suo mastino ormai corrotto dal padrone –
per giustificarmi il suo rifiuto… Né
pareva accorgersi di offendere non me
ma il mio lavoro in rima. Di contro
da bravo ex-giornalista li racconto
ora sposati con squallore e pochissimo
pigmento, lei e il suo bracco in RAI
il suo fallimento.
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