I pochi meridionali ormai scriventi
e mai inclusi in antologie in atlanti
degli altri poeti mai inculati – i mai
mafiosamente pervertiti
dall’editoria che conta a far carriera –
io non li ghettizzo io li salvo
se li spingo al suicidio come topi
li convinco che è meglio andare
dentro i lager oppure col veleno
che convivere col nulla che ora sono
con la propria insufficienza di gramigna.
Io li affogo nello scarico dell’Ilva
nello Ionio che non sanno più d’avere.
È meglio non esserci mai stati –
dico loro con orgoglio – che esserci
da stronzi o da merdacce
nuovi fantocci col pedigree da italiani
e la calata ormai annacquata dalla tele
ma fuori da ogni storia o redazione
che li tratti da pari e non da casi umani
e ridotti al cicaleccio vanesio degli ultimi.
Eccoli raschiati al suolo come sputi
il loro mondo al sapore di finocchio
o di cannella e scopiazzato alle scorregge
milanesi dei neo orfici – che nulla
mi diranno mai di me non conoscendosi
e del mio cuore crudo di cicoria
ma impongono lo stesso il loro credo
a questo scrivere che s’odia in loro
nel loro affetto spudorato e fuori moda
di coloniali. Tutti amici i poeti
e fuori luogo.
Tutti uguali.
Ma i poeti del Sud sono finiti – lo sento
ad ogni passo nella eco. O già emigrati
stanchi ed invecchiati dalla vita
dalla loro stessa emigrazione
aspettano la fine nel silenzio
che gli corteggia il buco.
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