Romanzo di un giovane povero, di Ettore Scola, è un film che risulta ancora più attuale oggi di quando è uscito, nel 1995. Parla di un giovane insegnante disoccupato (interpretato da Rolando Ravello col suo volto da ragazzino stempiato), sensibile e riservato, molto orgoglioso, che non riuscendo ad inserirsi o adattarsi al mondo preferisce accollarsi la colpa di un delitto per andare in galera, che coi suoi ritmi imposti gli dà più certezze ed equilibrio della realtà esterna. Questa differenza viene evidenziata nel film dal passaggio di tono fra primo e secondo tempo. Dove nel primo tempo – che descrive l’ambiente in cui avviene il delitto e ha un sapore più fortemente grottesco, a tratti polanskiano – il mondo è un groviglio assurdo, livido, notturno e per questo orrendo, mentre nel secondo – che cerca di ricostruire i fatti incerti ed ha più il sapore del giallo di inchiesta “filosofica” alla Sciascia, dove la risoluzione immediata del giallo non è tanto importante quanto capirne la verità sottaciuta – la realtà della prigione appare più pedante e ordinata, non priva di scosse emotive ma sempre contenute, la notte si dirada sotto le luci al neon. “Nonostante i tuoi sforzi, nessuno ti ha ancora condannato” dice il magistrato (André Dussollier) al giovane disoccupato che non vuole difendersi dalle accuse, proprio perché ha già scelto da che parte stare, quella di chi rinuncia a una lotta che vede già persa in partenza fino al punto di autopunirsi ed escludersi. Di contro, su tutto il film sovrasta la figura “mostruosa”, e speculare a quella del giovane, di Alberto Sordi che interpreta qui uno dei suoi ruoli più cupi e drammatici, tanto da fare il paio per oscurità con quello di Un borghese piccolo piccolo – ma con dei picchi di humor nero, come quando durante la scena del funerale cita se stesso nel Vedovo – un uomo che si vota al male proprio nella speranza di dare un’ultima scossa alla propria esistenza e poi vede questo male rivoltarglisi contro, strappare ogni sua illusione e poi distruggerlo, lasciarlo solo a morire. Da quest’incubo, insomma, non si salva nessuno.
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