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giovedì 12 agosto 2021

che cos'è una metafora

Cito da Czesław Miłosz, La mente prigioniera (Adelphi): «Pablo Neruda, grande poeta dell’America Latina, viene dal Cile. Ho tradotto molte sue poesie in polacco e sono stato contento quando è riuscito a evitare l’arresto fuggendo dal suo paese natale. Pablo Neruda è comunista. Gli credo quando scrive della miseria del suo paese e lo stimo per il suo gran cuore. Siccome, scrivendo, egli pensa ai suoi fratelli e non a sé gli è concessa in premio la potenza della parola. Quando però oppone alla follia del mondo capitalista la vita felice e gioiosa degli abitanti dell’Unione Sovietica, allora smetto di credergli. Gli credo fino a quando scrive di cose che conosce. Smetto di credergli quando comincia a scrivere di cose che conosco io». Riporto questo frammento che ho letto iersera, non come disanima del comunismo storico, quanto come metafora degli innumerevoli e poetici Neruda che ogni giorno leggo, sento, mi scrivono o contattano per dirmi esattamente le cose che so, imponendomele come le vedono loro.

domenica 23 maggio 2021

bambini

Ieri leggevo, nel saggio di Miłosz sullo stato di assuefazione o asservimento degli artisti al regime comunista, che se da una parte gli artisti si piegavano ai dettami del regime perché questo dava loro una rendita e una casa, in quanto gli artisti erano considerati necessari alla formazione culturale del popolo, dall'altra, visto che l'unica arte che potevano sviluppare era legata al realismo sociale (unico genere ammesso dallo Stato), la sola valvola di sfogo creativo per loro, quella a cui tutti ambivano per sbrigliare la fantasia e i colori, era la letteratura per l'infanzia, su cui lo Stato attuava una censura più blanda. Così, oggi, alcune delle opere più alte prodotte sotto la rigida dittatura comunista, sono libri per bambini.

domenica 24 gennaio 2021

il nemico

Leggo un articolo di Tony Judt, storico inglese di stampo socialista (morto una decina di anni fa) dove Judt racconta di un corso in cui prova a spiegare La mentre prigioniera di Czeslaw Milosz, descrivendo la propria difficoltà ad affrontare l’incredulità dei suoi studenti verso il sentimento del libro. La mente prigioniera è un saggio dei 1951 che – attraverso il ritratto di cinque intellettuali polacchi: quattro (chiamati Alfa, Beta, Gamma e Delta) adattatisi al potere stalinista, e un quinto (Witkiewicz) morto suicida – affronta l’asservimento a un sistema ideologico, o meglio ancora descrive il processo di seduzione di questo sistema ideologico sulla mente di quegli intellettuali che hanno ceduto (o per convenienza, o per paura dell’esilio, o per convinzione, o per sfiducia e inadeguatezza) parte della propria libertà di pensiero e del proprio senso critico a un sistema ideologico che li ingloba, in cui si sono ritrovati a vivere loro malgrado, ma alla cui visione si adeguano fino a farla propria. Tutti, inevitabilmente, entrando volontariamente all’interno di quella particolare gabbia e adattando il proprio campo visivo ai limiti imposti dalle sbarre, hanno finito per autoconvincersi che quella gabbia fosse l’unica realtà possibile. Nella prefazione al volume, Milosz racconta che quando uscì, in piena guerra fredda, il libro non piacque a nessuno, né ai comunisti che si sentirono insultati, né agli anticomunisti che avrebbero preferito un più deciso (e ideologico) atto di accusa contro Stalin, e non un saggio che prova a cogliere, invece, le sfumature di un processo mentale che avevano vissuto, in vari modi, tutti i popoli d’Europa nei trent’anni precedenti. Ecco che Judt ci racconta il seguito di quel processo, mezzo secolo dopo. Provando a discutere di questo saggio coi suoi giovani studenti, la difficoltà maggiore dice, è stata riuscire a definire l’idea di seduzione ideologica. I suoi studenti, infatti, cresciuti in un mondo post ideologico, pur capendo in sintesi cos’è una ideologia, affrontavano con incredulità o scetticismo la reale possibilità che qualcuno potesse immolarsi per una ideologia, ma anche “contro” una ideologia. La trovavano, portando all’estremo la propria insofferenza, una cosa inutile e insensata. Non attribuendo alcun valore a una qualsiasi ideologia, non riuscendo a capire che motivo ci fosse a lottare pro o contro una ideologia, non vedevano più nemmeno il nemico reale che avevano di fronte. Perché, anche se meno vistoso, ma altrettanto seducente, più sottile e infido, liquido, anche il consumismo è una ideologia, così come il liberismo selvaggio. Gli studenti astrattamente capivano di vivere a loro volta in una gabbia ideologica, ma nel concreto – o per paura o per convenienza – non vedevano né limiti, né soluzioni, né alternative, né vie di fuga da questa loro gabbia. E allora, concludendo, c’è da chiedersi: se non riesco più a vedere il mio nemico (perché magari il mio nemico è dentro di me, o io dentro di lui), come posso combatterlo? E ancora, ha senso combattere un nemico, anche se non lo vedo? E farlo, combattere un nemico che non vedo (anche sapendo che c’è), non è a suo modo una forma di follia?