Quando torno da un mio viaggio mia madre si lamenta di non averlo mai visto il mondo, d’essersi consumata la vita in questa casa grande, col giardino, ma conclusa. E torna sempre con la memoria a quand’era ragazza, a un suo viaggio in Italia con mio padre mai più ripetuto, l’unica occasione di fuga senza una meta. Sapesse invece io come la invidio, non mi crederebbe, d’avere un suo mondo chiuso e perfetto, senza falle, buchi neri o trappole nascoste, in cui muoversi padrona di sé e della sua vita, senza più ansie, né chiasso inutile. Il punto, credo, è proprio questo: che la felicità sognata è sempre un estremo, un qui ed ora oppure un infinito, mentre noi siamo inadeguati a spingerci oltre, e ci dibattiamo senza pace nel mezzo.
1 commento:
o ci si muove sul filo passo passo (ma quel movimento lì si può ancora chiamare felicità?)
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