venerdì 18 settembre 2015

yakov

Mio zio mi raccontava della baracca nella foresta, la sua casa per anni – trentacinque o più – ha perso il conto. Da miglia di distanza nel discendere la valle mentre la sera si raccoglieva nei rami di larice e di quercia sentiva l’odore del fumo di legna, il filo sottile che lo riportava sempre a casa. «Il silenzio, era tutto, era ogni cosa.» Persino i lupi, mi diceva, si muovevano tra gli alberi trattenendo il fiato. I merli sparivano ore prima del tramonto. La neve cadeva solo al buio così che all’alba il mondo era nuovo. Come viveva, cosa mangiava, come si vestiva, con chi parlava, cosa condivideva, non lo disse mai. Il primo fumo avvistato, il silenzio, i lupi invisibili, le loro orme stampate nella neve, le quotidiane sparizioni, il sole che sorgeva, il sole che moriva, l’assenza di un’altra voce, di una qualunque voce umana, questi i suoi compagni, la sua Siberia. La sua Detroit era ben altro: nel retro dell’Autoricambi una lampadina oscillava nuda su di lui mentre chino sul mestiere sbagliato nel posto sbagliato faceva il proprio ingresso nell’epica non scritta del tedio, una sigaretta in una mano, tre dita superstiti nell’altra. Yakov, il mio vecchio socio d’officina, un giorno appese il suo grembiale, posò guanti e polsiere, e si dileguò in fumo. Se comparisse ora alla mia porta nel suo viaggio diretto verso il nulla gli darei il bentornato con vino nero e pane nero, un bicchiere di tè, un pavimento di assi per dormire, e la speranza che il nuovo giorno gli porti la musica del silenzio. 

[Philip Levine, traduzione Giuseppe Strazzeri, Notizie del mondo, Mondadori 2015, pag. 35, 37]

1 commento:

amanda ha detto...

pagina bellissima, grazie