«Il fatto che esista una parola, “sogno”, non significa e non implica che la realtà abbia un’alternativa».
Iosif Brodskij, Lettera a Orazio
Percorriamo da ore un lungo corridoio in pietra, o ponte coperto da un’altissima volta e «sospeso sul nulla, ma solido», come ci dice la guardia che ci accompagna verso l’uscita col fare svagato e un po’ sbuffante, ma colloquiale, di tutte le guardie annoiate e costrette a un lavoro ingrato. Ho provato a farle domande, ma non ha risposto a nessuna, aggirandole coi suoi sinceri apprezzamenti alla meraviglia architettonica di quel corridoio. Ma è così lungo e impervio, insensato e pieno di curve inattese che si avvolgono e avvitano e aggrovigliano su se stesse in una sorta di labirinto serpentesco, che appare più il delirio di un ingegnere folle che l’opera grandiosa che ci dipinge la guardia entusiasta. Siamo in tre con la guardia. Ci accompagna un bambino che non conosco ma si stringe a me senza mai guardarmi in viso, e mi assomiglia al punto da essere il mio ritratto di quando avevo la sua età, la stessa aria malinconica, lo stesso sguardo privo di sorriso di quand’ero bambino. La guardia, parodiandoci, ci chiama la sacra famiglia mancata, mancandoci appunto una donna.
La volta, senza alcuna forma di illuminazione, emana una sorta di luminescenza muschiosa dalle pareti, che mi lascia ammirato. La guardia ci dice che è così perché riflette la luce che si propaga dall’uscita, ormai non troppo lontana. Non le credo più, da quanto tempo ci costringe, senza violenza ma con decisione che non ammette lamentele, a quella marcia forzata. È un cammino di ore indirizzato verso la nostra morte, lo sappiamo, eppure non ci opponiamo, ormai rassegnati alla fine. Certo, preferirei non essere costretto a quella prova massacrante. Mi sento come spossato, come se le gambe non riuscissero più a reggermi e per un attimo credo che sia in bambino a furia di appendersi a me a togliermi ogni forza. Vorrei scrollarmelo di dosso, cacciarlo via, ma poi mi prende pietà di lui e lo lascio perdere. Mi volto indietro, per un attimo come richiamato da una voce, ma è un’illusione, e mi chiedo dove sia sua madre, dove la sua vera famiglia, e perché è stato affidato a me in quelle ultime ore che ci coinvolgono. Poi lascio perdere anche le domande e mi concentro unicamente sulla voce querula della guardia, sulle sue chiacchiere per ammazzare il tempo che ci resta.
Arriviamo dunque alla fine del corridoio o ponte, di fronte a un enorme e solido muro all’apparenza senza uscita. E ci dirigiamo verso un angolo, incontro a una porticina strettissima e irregolare che sembra essere stata scavata nella spessa parete cieca con un punteruolo di fortuna. È talmente stretta come uscita da sembrarci ridicola. E noi dovremmo passarci attraverso? Ma come? Forse potrebbe il bambino, ma io? Provo a spiegarlo alla guardia, ma lei si dice convinta del contrario, è possibile.
Ci invita a chinarci e ad allungare la testa attraverso quella finestrella per ammirare, dopo tale cammino, cosa finalmente ci aspetta. Gli obbediamo e restiamo come paralizzati, meravigliati da tanto splendore. Siamo sospesi, è vero, chilometri sopra il mare, quasi nello spazio aperto. Ma persino la Terra sotto di noi, che pare farsi sempre più lontana, si illumina della stessa luminescenza diafana del corridoio in cui siamo. Mi volto, di nuovo armato di domande, verso la guardia, che adesso mi punta contro una pistola per precauzione, ma continua a sorridermi da un’adeguata distanza di sicurezza.
«Si può sapere dove siamo? Cosa ci aspetta? Vuoi davvero che saltiamo di sotto da quella altezza?» chiedo, facendomi finalmente coraggio, e alle mie parole il bambino sembra stringermi ancora di più a me, e mi bacia la mano che intanto si è posata sulla sua guancia umida, per scaldarlo.
La guardia mi sorride, comprensiva, e tira fuori dalla tasca una corda d’oro che mi passa. «Non dovete lanciarvi di sotto, dovete calarvi con questa e andrà tutto bene. Ma occorre fiducia».
Ma la corda mi appare troppo corta per calarci di sotto, e resto immobile.
Lui mi sorride per la terza volta e mi rivela: «Siamo nella pancia del Signore, questo è il suo intestino. Tocca a voi, adesso, dargli un senso».
Il bambino comincia a tremare contro il mio corpo, si stringe di più, sempre di più a me, fino a farmi male. Io fisso la corda che mi appare ancora troppo corta, non so decidermi, mi chiedo se a un certo punto ci sarà una magia, e come potremo mai uscire da quella fessura strettissima nel muro. Allora sento il grilletto della pistola che viene caricato. Osservo la canna puntare minacciosa verso di noi.
«Ora pregate» ci ordina.
1 commento:
Maremma che incubo!
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