Molta narrativa oggi mi annoia. Leggo 50-70 pagine di un libro e poi lo abbandono per noia. Mi pare che gli scrittori di oggi abbiano, quasi tutti, una carenza di ambizioni nei confronti della parola. Parlano tutti della storia, la storia, o della psicologia dei personaggi, come se la storia o la psicologia fossero le uniche cose che contano in un libro, e si dimenticano o ignorano volutamente la materia, la possibilità che ha la parola di dare, o di ridare, una consistenza tattile al mondo, ruvida o morbida che sia, un volume, una terza dimensione. Poi se glielo dici tutti ti rispondono che questa ricerca nel loro lavoro c'è stata, ma io non la vedo. Le loro storie, i loro personaggi spesso sono bidimensionali, affrettati, basati su una buona intuizione che spesso non viene sviluppata. Te ne accorgi perché i loro mondi non si staccano da loro. La grande letteratura la riconosci dal grado di autonomia di un personaggio dal suo autore, dalla sua capacità di vivere e di muoversi oltre l'autore, di crearsi uno spazio tutto suo dove l'autore è costretto a spingersi anche suo malgrado. Io sono per formazione un poeta, lo capisco quando chi scrive tocca le parole con mano, le modella con cura, ci ritorna sopra di continuo. Ed è un lavoro che può richiedere anche anni. Se leggi Thomas Bernhard, ad esempio, lo senti questo lavoro sulle parole, riconosci questa ambizione, questa grandezza che riesce ad annientarti, che annienta lo stesso Bernhardt, che era stato appunto un poeta... Per questo ultimamente leggo preferibilmente libri di poesia o di saggistica, opere che possano aprirmi nuove direzioni. In questi giorni, ad esempio, sto leggendo Il canone occidentale di Harold Bloom. Leggo quello e poi rileggo Shakespeare, Re Lear, tenendo conto di quanto vi è scritto, ed è per certi versi una lettura nuova e appassionante.
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