A me quello che più diverte della performance delle due ragazze che ieri hanno imbrattato il quadro di Van Gogh (ben sapendo che era protetto da una lastra di vetro) non è tanto la forma dell’operazione in sé, che se ne fanno di uguali almeno dalle avanguardie – ed è dello stesso tipo di chi ha imbrattato la statua di Montanelli per dirne una più recente – ma è il messaggio che hanno lanciato in contemporanea alla stessa: Perché si spendono tanti soldi per difendere delle opere d’arte mentre ci sono persone che non possono nemmeno riscaldarsi una lattina di zuppa? Che è una domanda talmente basica, anche se provocatoria, che ti viene da chiedere perché tengono ancora le scuole aperte visto che non servono a niente. Mi ha fatto ridere perché chiedono a che pro conservare un manufatto artistico che codifica il nostro immaginario, e di conseguenza il nostro linguaggio, utilizzando lo stesso linguaggio e lo stesso immaginario, tutto studiato nei dettagli: dal colore della zuppa intonato ai fiori di Van Gogh alle magliette stampate nero su bianco perché lo slogan fosse facilmente leggibile, al barattolo di zuppa bene in mostra che è già di per sé una citazione di Andy Warhol (se non è proprio pubblicità all’azienda, che ringrazierà). Nulla è lasciato al caso, tutto molto pulito e televisivo. Involontariamente o no, è talmente costruito come scenario che il messaggio umanitario va a farsi benedire e si parla soltanto dell’opportunità del gesto performativo, visto mille volte perché replica un linguaggio che, paradossalmente, si rifà nell’intimo proprio alla volontà di rompere col passato da cui scaturirono i fiori di Van Gogh o i cieli gialli di Gauguin. Insomma, un gesto di protesta che fa quasi nostalgia. E ti viene appunto da pensare che queste opere si conservano – e vanno conservate – apposta per questo motivo. Perché fra molti secoli, quando la nostra civiltà sarà scomparsa, e ammesso che la razza umana ci sia ancora, qualcuno studiando ciò che abbiamo conservato nei musei potrà ricostruire i nostri pensieri, il nostro linguaggio, com’erano fatti i nostri sogni, e non come facciamo noi adesso, quando ritroviamo delle antiche tavolette con ideogrammi astrusi di civiltà scomparse, a chiederci: chissà chi erano, cosa pensavano, chissà come riscaldavano la loro zuppa.
Postilla, 16 ottobre. Non l'ho nemmeno scritto bene nel post, perché volevo essere gentile, ma è proprio sbagliata l'attacco all'idea di museo, secondo me, che è una struttura pubblica (gratuita tra l'altro) dove si può andare a vedere e studiare la storia della pittura. chiedere nella propria azione perché si spendano soldi per una struttura pubblica di natura culturale, efficiente e aperta, tesa all'arricchimento senza preclusioni di chiunque, mentre ci sono altre urgenze nel mondo come la fame, è un messaggio sbagliato, puro benaltrismo classista. a che serve dare l'arte alla gente che non può mangiare? dategli da mangiare che quello gli serve. i poveri mangino fuori dai musei, che non gli servono, l'arte sia per chi può permettersela... se avessero attaccato una banca almeno. ma no, dovevano prendersela con un museo...
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