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sabato 15 maggio 2021

between thought and expression

 Mi ha scritto un ragazzo che mi aveva mandato tempo fa una raccolta in un italiano talmente asettico e precisino da rasentare poeticamente il rigor mortis. Non un brivido, non una traccia di emozione. Era una cosa strana da spiegargli, perché non c’era nulla di sbagliato in come scriveva, semplicemente gli mancava una lingua, una voce, uno stile. In lui ogni immagine diventava banale. Era il perfetto risultato di una buona e rigorosa educazione scolastica, per cui non potevo nemmeno dirgli che avesse sbagliato a studiare, con tutti i ciucci che mi contattano. Per fargli capire cosa intendevo gli ho consigliato di leggersi Di Ruscio. Ieri mi ha scritto innervosito dicendo di aver seguito il mio consiglio e di essere rimasto deluso. Questo Di Ruscio è uno che non sa nemmeno dove comincia la lingua, è tutto sbagliato in ciò che scrive, la sintassi, la punteggiatura, il semplice uso delle parole che spesso sono scritte male. Quello è avere una voce, gli ho spiegato. Se quella scrittura “sbagliata” ma espressiva ti scatena delle immagini, delle emozioni, allora funziona, è da quella forzatura delle regole che nasce la poesia. Non ti ha scatenato proprio nulla? gli ho chiesto. Solo una gran rabbia, mi ha risposto, perché uno che non sa nemmeno scrivere viene pubblicato e io no. Mi ha ricordato tanto una ragazza che conoscevo, a cui molti anni fa feci ascoltare un disco dei Velvet Underground e mi rispose che non le piacevano perché sono stonati.

giovedì 11 marzo 2021

like

Oggi una ragazza assai gentile mi ha detto che non vede l’ora che esca il mio prossimo libro. Mi ha fatto molto contento, ma anche per questo continuo a interrogarmi sul senso di fare libri, oggi. Spesso leggo autori che, in omaggio a Manzoni, ironizzano sui propri 25 lettori. Probabilmente non si rendono conto che stiamo già realizzando, invece, la profezia/condanna di Andy Warhol, il quale diceva: “in futuro, ciascuno avrà i suoi 15 minuti di celebrità”. Ecco, allo stesso modo, ma senza ironia, si può dire che in futuro ciascuno scrittore avrà i suoi 25 lettori, ma non più di quelli, 25 in tutto. Quanti soldi, quanta fatica, quanto malesangue costa fare un libro, molti non lo immaginano neppure, e tutto questo lavoro spesso lo si fa perché quel libro lo leggeranno 25 persone. Quando ci penso, in parte mi risolleva quanto disse Brian Eno del primo disco dei Velvet Underground, che lo comprarono in 100 ma quei cento poi diventarono tutti musicisti, ne furono stregati; in parte continuo a chiedermi che senso ha. Me lo chiedo soprattutto quando faccio un post buffo su FB per cui prendo magari 50, 70, 100 like e quei like sono la dimostrazione evidente che mi hanno letto e apprezzato il doppio o il triplo delle persone che normalmente comprerebbero un mio libro.

mercoledì 20 novembre 2019

only time will tell

In pieno 1979, completamente fuori di testa (al punto da decapitare un pollo sul palco e scatenare le reazioni violente persino del proprio gruppo) John Cale infila nei suoi concerti questa canzoncina che è l'equivalente dei vecchi pezzi cantati da Maureen Tucker coi Velvet Underground, quelli col fianco scoperto. Allo stesso modo, persino in tanta violenza, Only time will tell esprime un gran bisogno di pace, il desiderio quasi nostalgico di rimettere "tutte le parole al loro posto" e chiudere i conti con quanto è rimasto in sospeso, cosa che però sarebbe successa soltanto dieci anni dopo, col progetto Songs for Drella.

venerdì 15 gennaio 2010

lou reed e l'amore - shelley albin (seconda parte)

Lou e Shelley si ritrovarono intorno al 1968. Shelley nel frattempo si era sposata. E anche stavolta, così com’era successo coi suoi genitori, quando presentò Lou a suo marito sperando di poter costruire fra loro una solida amicizia, questi si rifiutò di avere a che fare con tale feccia umana. Visto che Shelley rimaneva sempre e comunque legata a Lou e non volendo rinunciare a vederlo, il loro rapporto divenne, proprio come alcuni anni prima, una dolorosa sequenza di incontri clandestini, fatti di brevi attimi di totale felicità e lunghi pianti senza sfogo. Si incontravano al parco o andavano allo zoo, passeggiavano, parlavano, ridevano, si capivano come nessun altro al mondo, eppure erano consci di quanto fossero effimeri questi momenti. I ricordi di quei pomeriggi così intrisi di bellezza e allo stesso tempo di un’infinita tristezza per tanto amore negato, ispirarono poi Reed per quella che forse resta, insieme a Sweet Jane, la sua canzone più famosa, Perfect day (contenuta in Transformer, del 1972).



Non solo, i tormenti sentimentali che stava vivendo in quel momento, diviso com’era fra questa storia senza futuro con Shelley e una relazione omosessuale con Billy Name, fotografo conosciuto alla Factory, lo costrinsero a guardare dentro di sé e a scrivere il suo primo vero album personale, il terzo dei VU (senza titolo), tutto dedicato alle sue riflessioni sull’amore, che viene sviscerato in ogni sua forma. Lo stesso Reed era così legato a questo lavoro da permettersi di modificare, senza informarne gli altri, il missaggio finale mettendo maggiormente in evidenza la propria voce sugli strumenti. Così che, messe da parte atmosfere malsane, distorsioni e ritmi tribali, si respira un’intimità senza precedenti per un disco dei VU, e infatti molti fan del gruppo storcono il naso a sentirlo. Eppure è uno dei capolavori degli anni ’60, e una delle opere più intense di Reed, che nel disco inserisce alcune delle sue perle: Some kinda love, Candy says, Afterhours, ma soprattutto Pale blue eyes, la più dolce e fragile delle sue dichiarazioni d’amore, con quel tocco di fatalità in più che fa la differenza. "Ho scritto questa canzone per qualcuno che mi mancava troppo" dirà poi in un’intervista. Per la prima volta è lui a incidere uno dei suoi pezzi sentimentali su disco. Nessun altro avrebbe potuto cantarlo così.



Nell’estate del 1969 la storia di Lou e Shelley assunse le tinte di una relazione vera e propria. Lou, che sentiva di capirla e di amarla più di suo marito le chiese più volte di lasciarlo ma lei, pur desiderandolo, ben sapeva che la vita con lui sarebbe stata troppo disordinata perché potesse adattarvisi. Shelley rifiutò sempre di fuggire con Lou, pur fra mille dubbi e rimorsi. Le composizioni di Reed di questo periodo registrano questa incertezza. Da una parte scrive canzoni vivaci e allegre come She’s my best friend (che poi, rallentata, finì nello stesso disco di Coney Island Baby), dall’altra lamenta la sua assenza e il suo bisogno di lei in brani come I can’t stand it, non ci sto, (in parte riscritta per il suo primo album solista) nel cui ritornello canta, dopo che la padrona di casa ha cercato di picchiarlo con una scopa: “Ma se Shelley fosse qui con me tutto andrebbe bene”.
Il mio pezzo preferito di queste registrazioni, però, si intitola I’m sticking with you, mi sto attaccando a te, e come spesso succede nei pezzi più intimi del primo Reed, la fa cantare ad altri. In questo caso il pezzo è costruito con un arrangiamento vaudeville e affidato alla batterista, Maureen Tucker, che con la sua voce da ragazzina non fa che accentuare il sentimento d’innocenza espresso dal testo (non a caso poi inserito nella colonna sonora di Juno). A metà però succede l’imprevisto. Il pezzo diventa prima un duetto fra lei e Reed. Poi, per dieci lunghissimi secondi, proprio come in I found a reason, Reed canta da solo, anzi di più, fa cantare il suo cuore. Non è mai stato e raramente sarà ancora così scopertamente nudo come in questo momento. Non è più una semplice interpretazione la sua, si avverte, è puro sentimento: “Farò qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa mi chiederai di fare, qualsiasi cosa per te…” prima del coro in crescendo finale. Qualsiasi cosa perché tu (Shelley) stia con me, è sottinteso. È un momento di grande commozione. La crisi è già alle porte e lui la sente e, come succede sempre a tipi così, l’unica maniera che ha per combatterla è aprirsi completamente, tirare fuori e confessare i suoi più intimi sentimenti. Una resa totale all’altra che però non venne capita, generando in tal modo un profondo rancore.
Tutto ciò è molto triste perché negli ultimi pezzi di Reed dedicati a Shelley (composti durante le registrazioni di Loaded ma utilizzati anch’essi nel suo primo album solista) si respira la trepidazione per qualcosa di nuovo. I love you e Love makes you feel sono pezzi di una semplicità disarmante in cui Reed ammette, finalmente in prima persona, di aver compreso che non ci si può opporre all’amore, che è stupido, perché l’amore ti fa star bene, ti fa sentire alto tre metri, e suona così...


Quando Shelley rimase incinta, nel 1970, fu costretta a scegliere se restare col marito, garantendo così alla figlia un futuro sicuro e confortevole o seguire Lou nelle sue derive tossiche e nei suoi sogni di rock’n’roll. Lei scelse di restare col marito. Il suo ultimo dialogo con lui avvenne al telefono. Lou stava male, era depresso: stava cercando, senza successo, di disintossicarsi e aveva lasciato i Velvet, nel tentativo di darsi una nuova direzione. La chiamò per congratularsi con lei della bambina e anche perché aveva bisogno di sentirla e lei, che aveva la madre accanto, fece finta di non conoscerlo e chiuse il telefono dicendogli che aveva sbagliato numero. Lui non la cercò mai più.

giovedì 14 gennaio 2010

lou reed e l'amore - shelley albin (prima parte)


Lou Reed incontrò Shelley Albin, ispiratrice delle più belle e famose fra le sue canzoni d’amore, durante il secondo anno di Università, a Syracuse, nel 1962. Passarono insieme, letteralmente appiccicati l’uno all’altra, i due anni successivi. Erano anime complementari e non riuscivano a stare lontani. Proprio per questo, paradossalmente, la prima testimonianza di quest’amore assoluto, fu il frutto della lontananza, durante il ritorno a casa per le vacanze estive fra secondo e terzo anno di università. Chi non ha presente quel sentimento così comune nelle storie a distanza, quando si sta soli a casa struggendosi di passione e malinconia e sospettando invece che l’altro se ne vada tranquillamente in giro a divertirsi con chissà chi? Ecco, il giovane Lou incanalò le sue prime crisi di gelosia in un breve racconto intitolato The gift, il dono, sviluppandole però in una trama grottesca, con tanto di omicidio finale di lui da parte di lei, e che prenderà la forma di un’agghiacciante spoken song solo nel 1967, quando John Cale lo recitò con voce incolore su una sgangherata base musicale improvvisata dai Velvet Underground per il loro secondo disco, White light/White heat. Qui sotto un bellissimo cortometraggio in italiano della canzone.



All’opposto, con I found a reason, ho trovato una ragione, l’altro grande pezzo scritto quell’estate, Reed scrisse la sua prima canzone d’amore in cui cercava di dare al proprio sentimento una forma attraverso le parole, di comunicarlo a un’altra persona. Ci aveva già provato pochi mesi prima con Coney Island Baby, una canzone che però non avrebbe avuto seguito e sarebbe stata completamente riscritta (e dedicata a un’altra persona) a metà degli anni ’70. È interessante notare come la prima versione di I found a reason, che tanto commosse Shelley quando la ascoltò, fosse arrangiata come un pezzo folk con tanto di armonica dylaniana (come la si può sentire nell’antologia Peel slowly and see). Non è una semplice curiosità, se si considera che il folk, nei primi ’60, era sinonimo di sincerità assoluta, spoglia ed essenziale. Quando Reed decise di riutilizzare il pezzo per Loaded, l’ultimo album dei VU, lo arrangiò con eleganza in chiave doo wop, lasciando il cantato a Doug Yule, il bassista del gruppo e tenendo per sé solo la strofa centrale parlata. Reed disse poi che non sarebbe stato credibile se l’avesse interpretata lui, ma è ovvio che non si sentiva a suo agio a cantare un brano in cui dichiarava così spudoratamente la propria sensibilità. A me personalmente piace, ancora più dell’originale, l’intensa versione che ne ha dato Cat Power nel 2000, e che credo catturi alla perfezione il sentimento di totale abbandono romantico provato da Reed quando la sentì nascere dentro di sé.



Nel 1963 il rapporto di Lou e Shelley si fece ancora più saldo. Divennero, come disse poi Reed, così intimi da essere quasi uno, da pensare le stesse cose nello stesso momento, da vivere in totale simbiosi e completare l’uno i bisogni dell’altro. Chi ha vissuto una storia così sa che sono brevi momenti di perfezione, ma restano unici nella memoria. Reed volle celebrare questi momenti in quello che può ritenersi il suo primo capolavoro assoluto come compositore, I’ll be your mirror, sarò il tuo specchio, perché se la guardavo, disse poi Reed, era come vedere me stesso. Una canzone a cui poi restò sempre legato ma incisa, sul primo disco dei VU, da Nico. Quei mesi e quella canzone furono il loro apice di felicità.
L’idillio finì quando Lou fece il grosso errore di chiedere a Shelley di presentarlo ai suoi genitori. Quando i due lo incontrarono si ritrovarono davanti a un tossico cinico e nichilista, e (comprensibilmente) impedirono alla figlia di rivederlo. Il loro divenne così un amore segreto, trascinatosi fra grandissime difficoltà, dovute ai primi massicci esperimenti con le droghe di Reed (in questo periodo scrisse Heroin e Waiting for my man) che avevano un effetto deleterio sul suo carattere. Alla fine Shelley, stanca, lo lasciò per un altro. Reed ci rimase male, tanto da litigare ferocemente con lei. Ma quando nel 1964 si laureò, prima di andare via dall’Università, si fermò a casa di lei, che era malata e non aveva nessuno accanto e le rimase vicino, prendendosene cura, finché non fu guarita. Era la prova che in fondo, nonostante tanti problemi, l’affetto fra loro restava sempre fortissimo. Poi i due si persero di vista per quasi tre anni, il tempo necessario a Reed per formare i Velvet Underground e per completare la sua discesa all’inferno nella Factory di Andy Warhol.


(continua)