Mi ha scritto un ragazzo che mi aveva mandato tempo fa una raccolta in un italiano talmente asettico e precisino da rasentare poeticamente il rigor mortis. Non un brivido, non una traccia di emozione. Era una cosa strana da spiegargli, perché non c’era nulla di sbagliato in come scriveva, semplicemente gli mancava una lingua, una voce, uno stile. In lui ogni immagine diventava banale. Era il perfetto risultato di una buona e rigorosa educazione scolastica, per cui non potevo nemmeno dirgli che avesse sbagliato a studiare, con tutti i ciucci che mi contattano. Per fargli capire cosa intendevo gli ho consigliato di leggersi Di Ruscio. Ieri mi ha scritto innervosito dicendo di aver seguito il mio consiglio e di essere rimasto deluso. Questo Di Ruscio è uno che non sa nemmeno dove comincia la lingua, è tutto sbagliato in ciò che scrive, la sintassi, la punteggiatura, il semplice uso delle parole che spesso sono scritte male. Quello è avere una voce, gli ho spiegato. Se quella scrittura “sbagliata” ma espressiva ti scatena delle immagini, delle emozioni, allora funziona, è da quella forzatura delle regole che nasce la poesia. Non ti ha scatenato proprio nulla? gli ho chiesto. Solo una gran rabbia, mi ha risposto, perché uno che non sa nemmeno scrivere viene pubblicato e io no. Mi ha ricordato tanto una ragazza che conoscevo, a cui molti anni fa feci ascoltare un disco dei Velvet Underground e mi rispose che non le piacevano perché sono stonati.
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