Ieri sera ho visto un film, Cadillac Records, che parla in maniera un po’ troppo romanzata della nascita della Chess Records. All’inizio del film c’è un aneddoto molto bello in cui si vede questo bianco che arriva in una piantagione del Mississipi perché gli hanno parlato di un nero che suona il blues come nessun altro e lo vuole registrare per il suo archivio sonoro. Il nero lo accoglie con diffidenza, ma dopo aver registrato alcuni blues, si riascolta e prende coscienza di sé, dell’uomo che è in lui, tanto da decidere di cambiare la propria vita e partire per Chicago dove farà il musicista. L’aneddoto è vero. Il bianco era Alan Lomax, che alcuni anni dopo passerà anche dalle mie parti in un lungo viaggio per il sud Italia, e il nero era Muddy Waters, padre di quel blues elettrico per cui ancora oggi andiamo in visibilio ascoltandolo attraverso i Rolling Stones o i Led Zeppelin. Proprio ieri pomeriggio ho letto una intervista a Vinicio Capossela, su Bob Dylan che fra quattro giorni fa ottant’anni, e fra le altre cose Capossela dice una cosa molto interessante, che nonostante Dylan abbia avuto anche in Italia degli epigoni importanti, artisti come Guccini o De Gregori, da noi la musica popolare o folkloristica per cui il cantautore americano nutre una sorta di devozione quasi religiosa, è stata letteralmente accantonata, ci siamo dimenticati di tutto ciò che la riguardava e l’abbiamo messa da parte senza nessuna coscienza né rimpianti. Ecco allora che le stesse registrazione che Lomax ha fatto in Sicilia o qui in Puglia negli anni ‘50 riprendendo i canti dei nostri braccianti al lavoro hanno per noi il suono di canzoni provenienti da un’epoca lontanissima e quasi preistorica, che a volte ci commuove ma non sappiamo più decifrare. Mentre ascoltando il blues dei neri delle piantagioni americane – opportunamente elettrificato – ci sentiamo più a nostro agio che con i canti delle nonne contadine, più a casa che nella nostra stessa casa.
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