Io credo che chi traduce un testo letterario abbia a che fare con una materia per la quale non ci sono manuali, perché il traduttore a me sembra che deve essere anche lui in balia della propria impotenza, come dice Agamben, accettarla, accoglierla, fare come il poeta, coltivare la propria disperazione e avere una specie di fede insensata in un evento improbabile, perché è vero che noi siam dei meccanici, in un certo senso, ma siam dei meccanici che parlano di macchine «la cui storia, dentro di noi, non si spegnerà mai; e sarà la storia della nostra libertà», come dice Manganelli, e mi viene in mente una poesia del 1933 di Osip Mandel’štam che dice, più o meno: «I tartari, gli uzbechi, i samoiedi, e tutto il popolo ucraino, e i tedeschi del Volga, perfino, aspettano i loro traduttori. E forse, in questo momento, un giapponese, mi sta traducendo in turco, e mi fruga l’anima». Ecco, secondo me uno che traduce, si prende prima di tutto quella responsabilità lì, di frugare l’anima, e non ci sono manuali per l’uso dell’anima, o se ci sono io non li conosco.
[Paolo Nori, dal suo blog]
2 commenti:
Con cinismo che normalmente non mi appartiene, almeno spero, arrangio qui un famoso aforisma non mi ricordo se di Bismarck o di Churchill: «se vi piacciono le salsicce e le traduzioni*, è meglio che non indaghiate troppo su come vengono fatte».
* Nella formulazione originale, la politica.
ahahahahahahah
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